mercoledì 26 ottobre 2016
mercoledì 12 ottobre 2016
Veglia
Dalle «Istituzioni» di san Colombano, abate
(Istr. 12, 2-3)
Quanto sono beati, quanto sono felici «quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli»! (Lc 12, 37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell'universo, che tutto riempie e tutto trascende!
Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me,
meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità
e accendermi talmente della sua divina carità
da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle,
sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più,
né mai più in me questo fuoco si estinguesse!
Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi
che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio,
sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore!
O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo,
donami quella carità che non viene mai meno,
perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua;
arda per me, brilli per gli altri.
Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore,
di accendere le nostre lucerne:
brillino continuamente nel tuo tempio
e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna;
siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito
e fuggano da noi le tenebre del mondo.
Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna,
perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi,
che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne.
Fa' che io guardi, contempli e desideri solo te;
solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio.
Nella visione dell'amore il mio desiderio si spenga in te
e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo,
perché, conoscendoti, amiamo solo da te,
te solo desideriamo,
a te solo pensiamo continuamente,
e meditiamo giorno e notte le tue parole.
Dégnati di infonderci un amore così grande,
quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso,
perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore
e ci faccia completamente tuoi.
In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all'infuori di te, che sei eterno,
e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo,
di questa terra e di questo mare,
come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore» (Ct 8, 7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi,
o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
(Istr. 12, 2-3)
Quanto sono beati, quanto sono felici «quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli»! (Lc 12, 37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell'universo, che tutto riempie e tutto trascende!
Volesse il cielo che il Signore si degnasse di scuotere anche me,
meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità
e accendermi talmente della sua divina carità
da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle,
sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più,
né mai più in me questo fuoco si estinguesse!
Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi
che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio,
sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore!
O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo,
donami quella carità che non viene mai meno,
perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua;
arda per me, brilli per gli altri.
Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore,
di accendere le nostre lucerne:
brillino continuamente nel tuo tempio
e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna;
siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito
e fuggano da noi le tenebre del mondo.
Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna,
perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi,
che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne.
Fa' che io guardi, contempli e desideri solo te;
solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio.
Nella visione dell'amore il mio desiderio si spenga in te
e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli ed arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo,
perché, conoscendoti, amiamo solo da te,
te solo desideriamo,
a te solo pensiamo continuamente,
e meditiamo giorno e notte le tue parole.
Dégnati di infonderci un amore così grande,
quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso,
perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore
e ci faccia completamente tuoi.
In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all'infuori di te, che sei eterno,
e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo,
di questa terra e di questo mare,
come sta scritto: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore» (Ct 8, 7).
Possa questo avverarsi per tua grazia, anche per noi,
o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
lunedì 10 ottobre 2016
E gli altri?
Lc 17, 11-19
Alcuni anni fa (a dire il vero sono tantissimi anni fa, sarà
stato l’86 o ’87), l’allora cardinal Ballestrero, vescovo di Torino, durante un
incontro con i giovani nel santuario della Consolata disse: ‘Carissimi giovani,
siete in tanti qui questa sera. Ne sono molto contento. Ma…e gli altri? Dove sono
gli altri? Ci accontentiamo di essere qui e di stare bene tra di noi o ci
preoccupiamo anche di chi non c’è?’. La sua meditazione continuò con la profondità
ed efficacia che lo caratterizzavano, ma mi colpì questa sua domanda iniziale. Me
ne sono ricordato ascoltando il vangelo di questa domenica, in cui Gesù fa la
stessa domanda. A quello che, solo, torna a ringraziare sui dieci guariti, Gesù
chiede ‘e gli altri nove, dove sono?’.
Partendo da questa domanda e da questa provocazione mi sono
venute in mente, riguardo a questo episodio dei dieci lebbrosi, alcune
considerazioni.
Lungo
il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando
in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a
distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Come sempre, oltre alla semplice descrizione dell’episodio,
possiamo cercare se ci siano qui anche degli ulteriori richiami e particolari
che ci possono indicare qualcosa di più di un semplice reportage giornalistico.
I lebbrosi sono dieci. Siccome nei vangeli (e nell’intera Bibbia) i numeri,
secondo la tradizione ebraica, possono richiamare anche significati simbolici,
andiamo a vedere se nei vangeli compare altre volte il numero dieci, e perchè. C’è
la parabola delle dieci dracme (Lc 15,8…), quella delle dieci mine affidate ai
dieci servi (Lc 19, 11…), c’è Matteo che descrive i miracoli di Gesù sintetizzandoli
in numero di dieci, la parabola delle le dieci vergini di Mt 25, 1-13)… Il
numero dieci viene usato quando si vuole indicare totalità. I dieci talenti ad
esempio sono tutti i doni che Dio ha dato a tutti gli uomini. Quando c’è il
dieci ci siamo tutti. I dieci lebbrosi, le dieci vergini, i dieci servi, siamo
tutti noi. Questa descrizione evangelica, pur partendo da un episodio reale, lo
presenta attraverso delle immagini simboliche che hanno lo scopo di farlo
diventare un messaggio per tutti i discepoli. I lebbrosi chiamano Gesù ‘maestro’
senza che ce ne sia la necessità (hanno bisogno di guarigione, non di
insegnamenti), ma questo è il termine con cui si rivolgono a Gesù tutti i
discepoli.
I dieci protagonisti dell’episodio sono lebbrosi, e la lebbra è
una malattia che se non curata distrugge il corpo, che perde letteralmente i
pezzi. La comunità dei discepoli rischia continuamente di perdere pezzi, come
il corpo di un lebbroso. Il corpo poi, seguendo la riflessione di san Paolo, è
immagine stessa della comunità cristiana.
Come il corpo, pur
essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo
solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un
solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e
tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un
membro solo, ma di molte membra. ... Non può l'occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di
te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi quelle membra del
corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che
riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle
indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne
hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che
ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra
avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra
soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora
voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. I Cor 12,
12-27
Dunque nei dieci lebbrosi possiamo intravvedere la comunità
cristiana, con i suoi problemi e le sue difficoltà. Una comunità che cerca il
suo maestro perché se perde i pezzi non può più più stare nel ‘villaggio’ che è il
mondo (i lebbrosi dovevano vivere lontani dai centri abitati). Una comunità che deve essere un corpo unito e collaborativo se vuole
essere la presenza di Cristo nel mondo. Se perde i pezzi, se è lebbrosa è
Cristo stesso che ne risente e quindi la sua azione salvifica per tutti gli
uomini.
Appena
li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
Nella comunità cristiana, così come nella comunità ebraica, c’è
un ruolo istituzionale affidato ai sacerdoti (anche se i sacerdoti nel mondo
ebraico hanno un ruolo diverso dai sacerdoti cristiani). Con i sacerdoti Gesù
ha un rapporto conflittuale. Non risparmia loro critiche e rimproveri. Eppure mai
scavalca la loro autorità e mai mette in discussione il loro ruolo all’interno
della comunità. I sacerdoti, nell’ottica ebraica, hanno il compito di fare da
intermediari tra Dio e il suo popolo, sono diciamo la presenza visibile di Dio.
Hanno il compito di ufficializzare l’azione di Dio davanti alla comunità. Chi è
guarito va dal sacerdote che ha il compito di dichiarare avvenuta la guarigione.
Da quel momento il malato, il lebbroso in questo caso, può ufficialmente
rientrare nella comunità. Diciamo che il sacerdote è il garante formale dell’appartenenza
al popolo di Dio. Gesù stesso, pur scontrandosi e criticando in alcune
occasioni il comportamento personale dei sacerdoti ne riconosce il ruolo e
invia da loro i lebbrosi perché possano essere ufficialmente riammessi nella
comunità.
E
mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò
indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi,
per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati
purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che
tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E
gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Ed eccoci all’epilogo con la domanda provocatoria di Gesù. Avendo
parlato prima di numeri, mi soffermo ancora un po’ su questa proporzione 1 a 10
che si crea con il ritorno del Samaritano a ringraziare. Questa proporzione è
la stessa, all’incirca, che nelle nostre parrocchie c’è tra battezzati e
praticanti. Più o meno qui Italia il 10 % dei battezzati va a messa (anche se il concetto di
praticanti è un po’ più complesso), il 90 % non ci va.
Quest’uno su dieci assume nell’ottica del brano evangelico
paragonato alla vita della comunità cristiana una serie di significati che mi
sembrano molto interessanti.
Per prima cosa potremmo chiederci: i praticanti sono migliori
degli altri? La tentazione di considerarsi tali da parte nostra indubbiamente c’è.
Ma nell’episodio quello che torna non è il migliore. È l’estraneo, il disprezzato.
Noi praticanti non andiamo a messa perché siamo migliori degli altri. Ci andiamo
perché riconosciamo il nostro bisogno dell’aiuto del Signore. E ci andiamo anche
perché vogliamo ringraziarlo per ciò che ha fatto per noi (ecco perché la messa
si chiama Eucaristia, che in greco, lingua dei vangeli, significa
ringraziamento).
E a noi, l’uno su dieci, lo stesso Signore cosa chiede? ‘E gli
altri nove, dove sono?’. Non credo che possiamo chiuderci nel nostro gruppo
ristretto, sia perché abbiamo scoperto che non è certo il gruppo dei migliori,
sia perché il nostro Signore non ce lo permette. Ci stimola a interessarci
degli altri, a prenderci a cuore la loro situazione e se necessario la loro
lontananza. La domanda di Gesù al Samaritano e a noi ne richiama un’altra assai
impegnativa:
Il Signore disse a
Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so.
Sono forse il guardiano di mio fratello?". Gn 4, 9
giovedì 15 settembre 2016
Tornato in vita
Lc 15, 1-32
Si avvicinavano a
Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi
mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Come molte altre volte
nei vangeli, due categorie di persone si incontrano, o si scontrano: peccatori
e pubblicani da una parte, scribi e farisei dall’altra.
Ed egli disse loro questa parabola: “Un uomo aveva due figli.
Il parallelo tra i due
gruppi di persone e due figli della parabola credo sia abbastanza evidente. Sarà
interessante vedere come Gesù evidenzierà le caratteristiche di ciascuno e le
metterà in relazione. Anticipo già che, oltre a riferire i comportamenti e le
caratteristiche dei due figli di cui parla la parabola ai due gruppi citati
prima, potremo anche mettere in gioco noi stessi e chiederci a quale di questi
figli somigliamo di più, oppure siamo stati somiglianti in alcuni momenti della
nostra vita.
Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di
patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
È molto interessante
vedere quanti filoni di riflessione si sviluppano da questa breve descrizione
del figlio più giovane:
È il più giovane. Generalmente
è dei più giovani l’atteggiamento di ribellione alla famiglia o all’autorità
sia sociale che religiosa. Allora ciascuno di noi può forse intravvedere nel
comportamento di questo ragazzo degli atteggiamenti propri avuti in età
giovanile. Anche se non tutti abbiamo preso decisioni così drastiche di
allontanamento, dei sentimenti di insofferenza, di contrasto o di rifiuto
possiamo forse riconoscerli. In particolare riguardo alla fede credo che il
percorso di allontanamento di questo primo figlio lo si possa vedere in
moltissimi giovani. E forse anche in qualcuno di noi.
L’evoluzione e lo
sviluppo dei comportamenti di questo figlio, pur descritto in poche righe (e
pur essendo questa una parabola, non un evento reale), deve aver richiesto
tempi molto lunghi. Non è che se ne sia andato il lunedì e tornato tre o
quattro giorni dopo. Lo sviluppo anche solo del rifiuto e della ribellione dura
mesi, anche anni, nella nostra vita reale. Prima c’è insofferenza, accettata
per un po’ e per un certo altro periodo sopportata e magari combattuta. Poi si
forma la decisioni di andarsene. Ma magari passa ancora del tempo prima di
decidersi. Poi c’è lo strappo. Poi l’allontanamento. E poi la fase di vita
autonoma e indipendente che può certamente durare per un tempo lunghissimo. Anni
o decenni. Almeno finchè non mancano le risorse. Tra parentesi, Gesù non parla
mai di denaro. Usa i termini ‘patrimonio’, ‘sostanze’, ‘cose’. Anche questa
scelta apre degli orizzonti interessanti. Questo ragazzo non ha solo denaro. Ha
anche, come tutti noi, energie, capacità, talenti, forza, intelligenza, la vita
stessa. Tutto questo e non solo il denaro è il suo patrimonio. Facendo subito
un paragone spirituale con noi stessi, ciascuno di noi dal Padre, Dio, ha
ricevuto tutto questo. E in genere, finchè questi beni sono operativi e
funzionano (salute, forza, intelligenza…), ce li gestiamo in autonomia e magari
anche in totale indipendenza da Dio. Quando va tutto bene è più facile fare gli
indipendenti, anche nella fede. Ma quando cominciano a mancare…
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed
egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i
porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma
nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: Quanti salariati di
mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono
più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Si alzò e tornò da suo padre.
Anche la fase del ripensamento e del ritorno
richiede tempi lunghi, a volte lunghissimi. È molto interessante questo sviluppo
temporale, se riferito non solo noi stessi ma anche in particolare alla
comunità cristiana, alla chiesa. Non dimentichiamo il punto di partenza della
parabola: i farisei che brontolano perché Gesù sta con i peccatori. Come vedremo
nel figlio più grande, i giudizi e i pregiudizi a volte sono forti. E anche
motivati. Ma spesso ci dimentichiamo che il cammino delle persone richiede
tempo. Non possiamo, neanche nel percorso di fede (soprattutto in quello,
direi), pretendere che gli altri siano come li vorremmo e neppure che capiscano
tutto subito e migliorino di colpo. Allora nell’immagine di questo figlio più
giovane e nella sua lunga evoluzione possiamo vedere sia nelle nostre famiglie
sia nelle nostre comunità innumerevoli situazioni: C’è
chi, come il fratello maggiore, è o sembra più rassicurante, fedele, obbediente
al Padre. C’è chi, specialmente dei più giovani, sta scalpitando, è in fase di
insofferenza, di rifiuto, di ribellione, anche se continua a farsi vedere,
magari sempre più di rado. C’è chi (sono tanti!) si è già ribellato, se n’è già
andato. C’è chi è lontanissimo e sta benissimo così, c’è magari chi sta
ripensando dentro di sé, ma intanto continua a essere lontano, sia nei
comportamenti che nella fede. C’è chi sta tornando piano piano…
Ebbene, la cosa interessantissima di
questa parabola è l’atteggiamento del padre:
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse
incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
L’atteggiamento del
padre è bellissimo, e ricorda nei termini utilizzati il buon samaritano. Ma ha
dovuto aspettare che il figlio tornasse.
Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non
sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: Presto,
portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al
dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e
facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era
perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
È il padre che sa dare
un significato di unità alla situazione del figlio, che da solo è riuscito solo
a fare un gran casino. Notare tra le altre cose che è tornato non perché la consapevolezza
delle sue scelte sbagliate si è evoluta e lo ha portato a una decisione
profonda e pensata. No, torna perché ha fame e a casa sua si mangia.
Ebbene, in tutto
questo il Padre non ha mai smesso di aspettarlo. Non ha mai smesso di
considerarlo suo figlio. Mentre l’altro, il maggiore, come vedremo, è molto critico
e risentito, il Padre ‘lo vide, ebbe
compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò’. Sempre più paradossalmente,
il Padre ‘ama di più’ il figlio peggiore che non l’altro. Non è vero, ma certo
sentimenti, comportamenti e atteggiamenti del padre verso questo figlio sono
molto espressivi. È il continuo amore del Padre che ha permesso al figlio
giovane di tornare. Se avesse percepito un rifiuto, se il Padre gli avesse
detto ‘se esci da qui non tornare più perché non sei più mio figlio’, il figlio
non sarebbe tornato. Il ragazzo è tornato perché il padre non ha mai smesso di
essere il Padre.
Ecco, questa è la
misericordia di Dio.
Questa dovrebbe essere
anche la nostra misericordia, specialmente verso chi se n’è andato. E magari
sta benissimo dov’è. E magari fa delle cose bruttissime e cattivissime.
Ed ecco che ora arriva
il figlio maggiore:
Il figlio maggiore … si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora
uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti
anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un
capretto per far festa con i miei amici. ora che è tornato questo tuo figlio,
che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso.
Ovviamente si indigna.
L’avremmo fatto anche noi. Però, però, però…nel figlio maggiore si intravede la
figura dei farisei e degli scribi a cui Gesù sta parlando. E questo dovrebbe
darci molto da pensare. E la nostra immagine rischia di somigliare tanto alla
loro. Di noi che siamo quelli bravi, quelli che fanno le cose per bene e che
non disobbediscono mai (beh, quasi mai). Noi che così facilmente giudichiamo
quelli lontani, quelli che ‘divorano le proprie sostanze con le prostitute’,
dovremmo fermarci molto a riflettere su questa parabola.
Perché se il padre è
Dio, allora dovremmo anche notare che il nostro atteggiamento, i nostri giudizi,
le nostre impazienze verso i ‘lontani’ …rendono lontani da Dio anche noi. E ben
poco somiglianti a lui. E come nella parabola finisce per succedere che mentre
gli altri, i ‘peggiori’ tornano nella casa del Padre, noi che nella casa ci
illudevamo di esserci sempre stati …ci rifiutiamo di entrare.
Non dimentichiamo che
la festa, il banchetto nella cultura biblica e evangelica è l’immagine del
banchetto eterno, del paradiso stesso. E nella parabola il figlio ‘peggiore’
entra nella festa, in paradiso, mentre l’altro, il ‘migliore’ resta fuori. Ma l’estremo
del paradosso è che resta fuori dal paradiso non perché è stato cacciato, ma perché
non vuole entrare lui! Come era già uscito ad
accogliere il primo, il padre deve uscire anche per il secondo, addirittura a
supplicarlo: per favore vieni in paradiso.
Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è
tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto
ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
La chiave che permette
di vedere le cose come le vede Dio non è la valutazione dei comportamenti delle
persone (siamo noi che vediamo solitamente così le cose), ma la continua
affermazione da parte del Padre che entrambi i protagonisti della parabola sono
suoi figli. Qualunque cosa facciano, qualunque disastro combinino, a qualunque
distanza siano da lui. Questo non significa che per Dio va bene tutto e che
tutti i comportamenti siano uguali, ma che oltre il giudizio sui comportamenti
c’è un orizzonte più vasto, più alto e più completo. Orizzonte in cui vive Dio
e che non frequentiamo troppo poco, pur potendo conoscerlo dopo la rivelazione
portata da Cristo.
Ed eccoci all’ultima
osservazione. Quella che permette a noi, se lo vogliamo, di entrare nella testa
e nel cuore del Padre e tirarne le conseguenze. Il figlio maggiore, pur nella correttezza formale dei suoi
comportamenti (‘io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando’) si è dimenticato
della realtà che per il Padre è invece fondamentale: lui è figlio, così come l’altro.
È interessante notare
come il maggiore non si rivolga mai al genitore chiamandolo ‘padre’, e al
minore chiamandolo ‘mio fratello’. Il minore, anche nei momenti peggiori
(quando comunica la sua volontà di andarsene, quando sta a pascolare i porci…)
non dimentica mai il suo essere figlio. Si rivolge sempre al genitore
chiamandolo ‘padre’. Il maggiore no. Questa parola non la pronuncia mai. Allora
tocca al padre, come già aveva fatto con l’altro, uscire e andare verso di lui
a cercarlo. E alla protesta del maggiore, il Padre risponde mettendo subito in
chiaro come vede lui le cose: ‘Figlio, tu sei sempre con me…’. Il maggiore non
lo chiama ‘padre’, ma il padre lo chiama ‘figlio’. Come per dire ‘ricordati che tu non sei mio servo,sei mio
figlio, e anche lui lo è’. Ma non finisce qui. Mentre protesta, il maggiore,
parlando del minore non lo chiama ‘mio fratello’, ma ‘questo tuo figlio’. Dimenticandosi
della sua identità verso il Padre, il maggiore si è perso anche il suo vero
rapporto con il minore. Allora ci pensa il Padre a fare anche questo:
bisognava far festa e
rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita
L’ordine delle cose
ristabilito dal Padre è: il più giovane è mio figlio, tu che sei il maggiore
sei mio figlio. Quindi voi due siete fratelli.
Due piccole appendici ancora:
La parabola non dice
se il fratello maggiore è poi entrato.
Se il figlio giovane
tornando avesse trovato il fratello più grande invece del padre, che sarebbe
successo?
mercoledì 7 settembre 2016
Followers
Lc 14, 25-33
Una
folla numerosa andava con Gesù.
Gesù è ormai famoso. Ha molti seguaci. Se allora ci fossero
stati i social network avrebbe avuto molti followers su Twitter e molti amici
su Facebook. Ma ora come allora queste cifre e questi numeri sono assai labili
e difficilmente esprimono un legame personale reale. Oggi il personaggio famoso
può usare questi numeri per ottenere prestigio e per mettere in moto interessi
economici e pubblicitari letteralmente sfruttando e usando i numeri di cui
dispone. Anche Gesù avrebbe potuto giocare su questi numeri per ottenere
potere, visibilità e gratificazione. Invece...
Egli
si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo
padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la
propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria
croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Curiosamente Gesù sembra fare di tutto per convincere i suoi
seguaci a lasciarlo. E non è l’unica occasione in cui lo fa:
Da allora molti dei suoi discepoli si
tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi
volete andarvene?”. Gv 6, 66-67
Gesù non cerca folle di seguaci. O meglio, non si lascia sviare
dalla fama e dagli ammiratori. Ha qualcosa da dire e da fare e lo dice e fa. Senza
curarsi se quello che dice e fa piace o no. Su un suo ipotetico profilo
Facebook all’inizio avrebbe avuto tantissimi like, ma a poco a poco si
sarebbero trasformati in pollici versi.
Ma Gesù tira dritto. Dice quel che deve
dire. Anche se i seguaci si diradano e aumentano perplessità e contrarietà. E le
cose che dice Gesù sono spesso davvero difficili e impegnative. Le stesse perplessità
della folla probabilmente sono anche le nostre. Abbiamo visto che anche gli
stessi discepoli sono sconcertati. Ma Gesù non cerca fama e gratificazioni,
anche se credo gli facesse piacere vedere tutta quella gente che lo cercava. Ma
lo cercava per cosa?
Quando la folla
vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si
diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Trovatolo di là dal mare,
gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”. Gesù rispose: “In verità, in
verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che
perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi
darà. Gv 6, 24-27
Credo che la parola chiave per capire ciò che Gesù propone sia molto impegnativa, anche se ahimè troppo abusata: Gesù chiede di
essere amato, non solo seguito. E non chiede l'amore del fan per il suo idolo, amore che non ha nulla di personale, perchè idolo e seguace non si incontreranno mai. Amare per
Gesù è qualcosa di totalizzante, unico, e profondamente personale. Lui amerà fino a dare la
vita. E chiede di essere amato con la stessa totalità. Ecco allora che i tanti
seguaci, che andavano da lui per ottenere qualcosa per sé (un miracolo, una
guarigione, una gratificazione), lo lasceranno poco a poco.
Ora però Gesù dice una cosa assai curiosa:
Chi
di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a
vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta
e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a
deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di
finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non
siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene
incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei
messaggeri per chiedere pace.
È come se Gesù volesse in qualche modo giustificare chi non è
capace di amarlo con quella totalità che lui richiede. ‘Se capite di non essere
in grado di fare quello che vi dico, piuttosto non impegnatevi. Ma non
seguitemi per finta. Non pensate di dichiararvi miei discepoli per poi amare
altri, seguire altri, tenermi in comproprietà con altri interessi e affetti^.
Credo che questa provocazione sia molto attuale. Certamente la tentazione di tenere il piede in due scarpe,
fino a sconfinare nell’ipocrisia che Gesù tanto detesta, è presente in tutta la
storia della chiesa. Ma oggi in particolare la nostra esasperazione del
personalismo tende proprio a portarci a usare cose e persone per accontentare
le nostre esigenze. Così ci porta a cercare in giro tutto ciò che ci gratifica,
ci piace e corrisponde ai nostri desideri, magari raccattando e mettendo
insieme realtà e anche fedi diverse, in un sincretismo che ha come unico
criterio se stessi. Così dal vangelo o dalla chiesa prendiamo quello che ci
serve e ci piace, lasciando il resto. E altro prendiamo da altre realtà che
possono esserne estranee o perfino contrarie. Come al supermercato. Ma Gesù non
vuole essere messo nel carrello della spesa come un qualunque altro bene di
consumo. Chiede di essere scelto come alimento principale oppure di essere
lasciato.
Così
chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Chi ama il padre
o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me
non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di
me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita
per causa mia, la troverà. Mt 10, 37-39
Ciò che è in ballo è la vita stessa. E Gesù senza mezze parole
presenta se stesso come la vita.
Gesù disse a Marta: “Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà;. Gv 11, 25
E la vita (tanto più se è eterna) merita di essere in cima alla
lista della spesa. Tutto il resto viene dopo. Perché senza la vita tutto il
resto non sarebbe che polvere e nulla.
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