Mt
25, 14-30
Gesù disse ai suoi
discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un
viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque
talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi
partì.
Sentendo
la parola talenti automaticamente
ormai siamo portati a pensare alle doti e alle capacità di ciascuno, tanto che
ormai anche nel linguaggio comune ‘talento’ proprio questo significa, e in
televisione proliferano i vari talent show che hanno lo scopo di esibire le capacità
delle persone che gareggiano.
Ma
non sono tanto sicuro che fosse proprio questo il significato dato a Gesù in
questa parabola. Innanzitutto
il termine ‘talento’, nel testo, si riferisce a una somma di
denaro. Una grande somma di denaro.
Il talento, come la mina, è una "moneta di conto", cioè un'unità monetaria che non esiste in
realtà
ma alla quale si fa riferimento per calcolare somme di grande quantità … Il talento attico, di cui
parlano i Vangeli, si divideva in sessanta mine, ognuna delle quali valeva
cento denari … si è calcolato che in quindici anni un
lavoratore poteva guadagnare un talento in tutto...
È vero
che le parabole usano immagini simboliche per richiamare altre realtà, ma
occorre sempre partire dal significato principale dell’immagine per coglierne
quello simbolico nel modo giusto. E se ci riusciamo è bene dare alle immagini
che Gesù usa il significato che vuole lui, non quello che ci vediamo noi,
altrimenti si rischia di non capire.
L’uomo
che affida i talenti ai suoi servi consegna loro non solo delle somme di
denaro, ma ‘i suoi beni’. Un affidamento totale, non solo parziale. E,
attenzione, questi beni non sono dei servi, sono suoi. Li affida a loro, ma
rimangono suoi.
In tutto sono otto talenti. Se un talento equivaleva a 15
anni di lavoro, equiparato a spanne ai prezzi di oggi e tenendoci bassi
calcolando 1000 euro al mese di stipendio (per comodità di calcolo), 1000 euro
x 12 mesi x 15 anni = 180000 euro fanno un talento. 8 talenti sono 1.440.000
euro. Al primo servo vengono consegnati 5 talenti, quindi 900.000 euro, al
secondo 360.000, al terzo 180.000. Questo calcolo ci permette di correggere una
prima impressione che si ha ascoltando superficialmente la parabola, e cioè che
al povero terzo servo siano stati dati pochi miseri spiccioli. 180.000 euro non
sono una piccola cifra certamente.
Il
secondo particolare da notare è che il padrone dà i talenti ‘secondo le
capacità di ciascuno’. Ma se è così, se i talenti sono dati secondo le
capacità, allora non sono le capacità. Le capacità sono proprie dei servi, i
talenti sono proprietà del padrone.
Subito colui che aveva
ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così
anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
Le
capacità dei primi due servi vengono utilizzate per moltiplicare i talenti. In questo
non c’è nessuna discriminazione tra loro (perché questo è il vero inghippo che
immediatamente ci turba in questa parabola: che al terzo servo sia stata fatta
un’ingiustizia), perché anche il terzo avrebbe potuto fare la stessa cosa. Come
vedremo la risposta del padrone è identica per il primo che ha raddoppiato la
cifra come per il secondo. Sarebbe stata la stessa anche per il terzo se avesse
fatto altrettanto.
Colui invece che aveva
ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il
denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle
regolare i conti con loro.
Ecco
il collegamento con l’Avvento: il ritorno del padrone ‘dopo molto tempo’.
Si presentò colui che
aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi
hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene,
servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco,
ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò
poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato
due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele –
gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto;
prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Prendi
parte alla gioia del tuo padrone. Come hai saputo prendere a cuore i suoi beni
come fossero tuoi. Prendere parte, ecco la chiave per comprendere il
comportamento dei primi due servi e quello, in negativo del terzo.
Si presentò infine anche
colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo
duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto
paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è
tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove
non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio
denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse.
‘Ecco
ciò che è tuo’. Credo che questa sia una delle espressioni centrali utili per comprendere
questa parabola. Certo che il talento è suo, è del padrone. Ma mentre gli altri
due si sono presi a cuore in qualche modo le proprietà del padrone e le hanno
sviluppate come fossero loro, mettendogli a disposizione le proprie capacità,
il terzo servo ha tenuto per sé le proprie capacità e per il padrone il suo
talento. Non ha voluto collegare le due cose. Non si è immischiato. Non ha
voluto prendersi a cuore i beni del padrone che gli erano stati affidati.
Mi
sembra di sentir risuonare le parole del figlio maggiore della parabola del
figliol prodigo: ‘io ti servo da tanti anni e non mi hai mai dato un capretto…’
e la risposta del padre ‘figlio, tutto quello che è mio è tuo’.
I primi
due servi si sono comportati come figli. Il terzo ha preferito rimanere servo.
E il
motivo? ‘Ho avuto paura’. Un figlio non ha (normalmente) paura del padre. Un servo
invece può averla. E da cosa è generata questa paura? ‘So che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso’. Questa è l’immagine
che il servo ha del padrone. E in base a questa immagine che si è creata agisce
di conseguenza. Ma un padrone che affida al proprio servo 180.000 euro non corrisponde molto a questa idea di diffidenza e di paura. Ma quest’uomo
non se ne rende conto, servo ancora più che del padrone della propria idea che ha di lui.
Ci
sarebbe stata ancora una possibilità per questo servo: pur nella distorsione
dell’immagine che ha del padrone, avrebbe
almeno potuto, se non voleva utilizzare le proprie capacità per lui come hanno
fatto gli altri, sfruttare le capacità di altri. Mettere il denaro in banca non
gli sarebbe costato né sforzo né impegno e avrebbe ottenuto come risultato
degli interessi (evidentemente era ancora il tempo in cui mettere i soldi in
banca rendeva qualcosa). Ma forse è proprio questa la maggiore aberrazione
ottenuta dal suo atteggiamento: non solo ha paura del padrone e diffida di lui, non solo non
vuole faticare e mettere in gioco per lui il proprio tempo e le proprie capacità, non vuole nemmeno che il padrone ne abbia dei vantaggi.
Da qui si può
scorgere in lontananza un’altra parabola, quella in cui non solo i servi non
vogliono rendere al padrone ciò che è suo, ma finiscono per ucciderlo per avere
tutto loro.
Toglietegli dunque il
talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e
sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il
servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di
denti”».
Ancora
una volta il richiamo alle tenebre eterne, ma mentre una lettura superficiale
ci portava sull’orlo del risentimento verso il padrone per questo poveretto che
veniva discriminato ingiustamente e pure punito, ora si comincia a cogliere più
in profondità di quanto possano dipendere da noi le conseguenze delle nostre
immagini sbagliate di Dio.
Un capomastro lavorava da molti anni alle
dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l’ordine di
costruire la villa più bella che sarebbe riuscito a immaginare, secondo un
progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gli gradiva e non
badare a spese. I lavori cominciarono, ma approfittando di questa cieca
fiducia, il capomastro pensò di usare materiali scadenti, di assumere operai
poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma
risparmiata. Quando la villa fu terminata, durante la festa di inaugurazione,
il capomastro consegnò al presidente della società la chiave di entrata. Il
presidente gliela restituì e disse, stringendogli la mano: “Questa villa è il
nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza”