lunedì 23 settembre 2013

la roba



Lc 16, 1-13

Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore,

Un amministratore. Parola fondamentale per comprendere la nostra identità e anche la nostra posizione di fronte alle risorse e alle proprietà che abbiamo a disposizione. Noi consideriamo nostri il denaro che abbiamo, i beni che possediamo e tutto ciò che ci siamo guadagnato o conquistato con i nostri sforzi. Ma c’è un particolare che tendiamo a ignorare e che invece qui ci viene ricordato: tutti questi beni li possediamo grazie a delle dotazioni che non sono di nostra proprietà, ma che ci sono state regalate. Il tempo che abbiamo a disposizione, la salute, il corpo, le capacità, i talenti, l’intelligenza, anche se li definiamo ‘nostri’ in realtà ce li siamo trovati già fatti, ci sono stati donati, sono un regalo. Nessuno di noi oserebbe, credo, rivendicare la proprietà assoluta di queste dotazioni. Il nostro lavoro e il nostro impegno ci hanno portato dei risultati e dei compensi,anche economici, ma certo non ci siamo guadagnati con i nostri sforzi o con il nostro lavoro né il tempo, né la salute, né l’intelligenza. Gesù ci ricorda che siamo più amministratori che proprietari. E questa constatazione cambia completamente la visione delle cose e i rapporti con le persone. Se ciò che ho lo considero mia proprietà, gli altri possono anche diventare dei potenziali nemici.


Ma se lo considero un patrimonio che mi è stato donato e che devo amministrare nel modo migliore (magari facendo non tanto i miei interessi quanto quelli del reale proprietario), anche i rapporti con gli altri assumono un significato diverso.

e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.

Rendi conto della tua amministrazione. Se sono il proprietario assoluto devo rendere conto solo a me. Se sono amministratore devo rendere conto al vero proprietario. Anche questa considerazione, che tanto peso ha avuto e ha tuttora nella spiritualità cristiana, può diventare uno stimolo formidabile nell’usare nel modo giusto le cose che possiedo. Dovrò rendere conto a Dio di come ho usato le dotazioni di cui mi ha fornito, e quindi anche dei risultati dell’uso di queste dotazioni.

L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

Per suggerire il modo migliore per considerare le proprietà, Gesù usa una esempio stranissimo. Sembra che lodi la disonestà e la proponga come criterio operativo. Perché il padrone (dietro cui si cela la figura di Dio) loda l’amministratore, che pure è stato disonesto e ha utilizzato i suoi beni per il proprio interesse? Perché il padrone stesso, pur essendo il vero proprietario di tutto, mette a nostra disposizione le sue proprietà. Non le considera come un suo tesoro geloso.

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Fil 2, 5-7

Se lui le cose sue non le considera sue ma le regala a noi, perché noi le consideriamo nostre? E se lui usa le cose sue per ottenere il fine della salvezza nostra, perché allora non usiamo le sue cose che abbiamo in dotazione per generare salvezza invece che scontri e inimicizie?

Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

Quante inimicizie, litigi, discussioni, guerre, ci troviamo intorno a causa di questioni economiche! Gente che non si parla più, famiglie divise, contrasti tra vicini di casa… Quanti nemici a causa del denaro! Quante lotte per ottenere, rivendicare, conquistare proprietà! 


Il modello che ci presenta Gesù è come sempre alternativo alla nostra visione istintiva delle cose. Il padrone della parabola è quasi contento che il suo amministratore (che pure non è uno molto affidabile) usi i suoi beni per farsi degli amici. Ecco la rivelazione contenuta in questa parabola, che poi Gesù esprime e sottolinea ancora in modo molto evidente: fatevi degli amici con la ricchezza, non dei nemici. Certo, se la ricchezza la considero assolutamente mia, gli altri inevitabilmente diventano dei nemici (quanto abbiamo paura dei ladri!), ma se mi rendo conto che la ‘mia’ ricchezza è  in realtà del mio padrone allora posso usarla come fa lui, per metterla a disposizione degli altri più che per difenderla per me.

Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?

Per due volte Gesù chiama ‘disonesta’ la ricchezza. Perché è contaminata da questa falsa visione delle cose: la considero mia ma non lo è. E chi usa come proprie delle cose che non sono sue è un disonesto. L’unica soluzione è quella di tornare onesti. È riconoscere onestamente che siamo amministratori e non proprietari assoluti e agire di conseguenza. Il Signore ci mette a disposizione tutto e possiamo usarlo come nostro ma nostro non è. E se lui che ne è il proprietario lo lascia così facilmente ad altri, allora dovremmo anche noi imparare a usare le cose sue per ottenere i beni che lui considera importanti: donare invece di pretendere, dare invece che avere. 
Chiudo con la Preghiera semplice di san Francesco (anche se non è vero), che riassume bene la visione delle cose così come ci è stata rivelata da Gesù:

O Signore, fa' di me uno strumento della tua Pace:
Dove è odio, fa' che io porti l'Amore.
Dove è offesa, che io porti il Perdono.
Dove è discordia, che io porti l'Unione.
Dove è dubbio, che io porti la Fede.
Dove è errore, che io porti la Verità.
Dove è disperazione, che io porti la Speranza.
Dove è tristezza, che io porti la Gioia.
Dove sono le tenebre, che io porti la Luce.
O Maestro, fa' che io non cerchi tanto
di essere consolato, quanto di consolare.
di essere compreso, quanto di comprendere.
di essere amato, quanto di amare.
Poiché è dando, che si riceve;
è perdonando, che si è perdonati;
è morendo, che si resuscita a Vita Eterna.

E mentre riflettevo su questo testo mi è anche tornata in mente una delle Novelle Rusticane di Giovanni Verga.

La roba

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. — Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. — Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
Infatti, colla testa come un brillanle, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga — dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: — Curviamoci, ragazzi! — Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. — Costui vuol essere rubato per forza! — diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: — Chi è minchione se ne stia a casa, — la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare —. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: — Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te —. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
— Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! — diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava — per un pezzo di pane. — E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! — I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare.
— Lo vedete quel che mangio io? — rispondeva lui, — pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba —. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: — Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? — E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva.
E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: — Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! —
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me! —



venerdì 6 settembre 2013

l'ultimo posto



Lc 14, 1.7-14

Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto.

In questo testo Gesù propone due criteri operativi riguardanti il vivere comune, che sono diametralmente opposti ad altrettanti atteggiamenti che tendiamo a mettere in atto nella vita nostra quotidiana.
Il primo criterio è ‘non mettersi al primo posto’.
Non si tratta ovviamente di una indicazione di galateo, quanto di un vera e propria proposta di stile di vita. Nei rapporti interpersonali ciascuno di noi tende in modo più o meno conscio a mettere sempre avanti le proprie esigenze, diritti, necessità e visione delle cose. Succede continuamente, in casa, in ufficio, per strada, in famiglia, al lavoro. La difesa dei diritti è certamente una delle bandiere della società occidentale, ma non sempre siamo capaci di cogliere l’altra faccia della medaglia: il fatto che il rispetto di un diritto implichi un dovere della controparte. Usando l’espressione di Gesù, ciascuno tende a ‘mettere al primo posto’ se stesso e le proprie esigenze. C’è chi lo fa in modo smaccato e arrogante e chi lo mitiga con un carattere positivo, c’è chi lo evidenzia in modo aggressivo e chi lo sa equilibrare con atteggiamenti di maggiore rispetto. Ma credo che tendenzialmente in tutti noi ci sia questa propensione. Se lo si sa fare in modo equilibrato e rispettoso non crea solitamente particolari problemi, anzi, è uno stimolo a chiedere e insieme a dare atteggiamenti di rispetto. Ma quando la difesa dei diritti, delle esigenze, delle necessità diventa una rivendicazione più o meno esplicita ecco che si accendono gli scontri, i litigi, i contrasti e le guerre. Gli altri diventano nemici, ostacolo alla nostra realizzazione. Solo se i miei diritti e quelli degli altri sono messi in equilibrio è possibile una convivenza serena. Ma Gesù non è questo che vuole dire, va oltre:

…quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Gesù non invita a una convivenza normale e rispettosa (a capire che bisognerebbe fare questo ci arriviamo anche da soli), ma addirittura chiede di ribaltare la tendenza innata, l’automatismo comportamentale, l’istinto di base: ‘mettiti all’ultimo posto’. Metti per primo i diritti, le esigenze, le necessità degli altri.
Quando identifichiamo il messaggio cristiano con un generico invito al rispetto, con un vago elenco di ‘valori’ (rispetto appunto, pace, solidarietà, accoglienza, amicizia…) credo che non abbiamo capito molto di Gesù. Che ci si debba rispettare, che sia importante essere accoglienti, solidali e pacifici lo sanno tutti. Non c’è nulla di cristiano in questo, anche se molti cristiani confondono questi valori con il messaggio di Cristo. Anche i non cristiani, anche i non credenti, considerano valori essenziali queste cose.
Cristo non è questo che è venuto a portare. È venuto a sovvertire completamente la scala di valori, tanto da rendere esplicito e attivo ciò che spesso consideriamo come un atteggiamento passivo e perdente: passare in secondo ordine, servire, mettersi in disparte. Nell’ottica umana questi atteggiamenti sono subiti come negativi, perdenti. Gesù li fa diventare il proprio modo di essere, senza per questo perdere la sua dignità, anzi, facendone il segnale della somiglianza con Dio. 


Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Mc 10, 42-45

Sorse una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Lc 22, 24-27

Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto … Quando ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. Gv 13, 3-17

Gesù propone di far diventare questo atteggiamento di dare la precedenza agli altri come il più attivo e positivo degli stili di vita. Sono passati venti secoli, ma credo che questo sia uno degli aspetti della rivelazione di Cristo che non ancora siamo stati capaci di capire pienamente, anche all’interno della Chiesa stessa, tanto è radicalmente contraddittorio rispetto all’istinto umano.

E per non farci mancare nulla, Gesù aggiunge ancora altro:

«Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Il secondo criterio è ‘non cercare il contraccambio’.
Altro atteggiamento che abbiamo fortemente insito in noi: più o meno consciamente, anche quando riteniamo di essere estremamente altruisti e disinteressati, calcoliamo i vantaggi dei nostri comportamenti, fosse anche solo aspettandoci riconoscenza e ringraziamento per ciò che abbiamo fatto. ‘Dopo tutto quello che ho fatto per te…’ è un tipico esempio di quello che Gesù vuole farci evitare (tra l’altro, oltre all’aspetto del calcolo delle convenienze è possibile vedere in queste affermazioni anche una forma più o meno esplicita di ricatto morale. Altro che amore e gratuità!). È un aspetto molto delicato e sottile dei nostri atteggiamenti che è difficile valutare e da riconoscere. Credo che ogni azione, anche la più generosa, porti in sé da parte di chi la compie quantomeno un’aspettativa di un qualche ritorno. Gesù lo chiama contraccambio. Tutto questo è molto umano, ma lui vuole portarci oltre, vuole che diventiamo misericordiosi come il Padre!

…a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.  Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Lc 6, 2-36


martedì 3 settembre 2013

san Gregorio Magno papa

«Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele» (Ez 3, 16). 
E' da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque è posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza.
Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco me stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può.
Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mia lentezza e negligenza. Forse lo stesso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso.
Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalle parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione. Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale, l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte faccende.
Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi.


Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità.
Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola?
Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere.
Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza?
Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficienza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di lui. 

 Dalle «Omelie su Ezechiele»