sabato 21 aprile 2012

resurrezione



La sera di quel giorno,

È il giorno dopo quel Sabato in cui ogni anno gli Ebrei celebravano e celebrano tuttora la Pasqua, la liberazione dall’Egitto. Gesù era stato crocifisso il giorno prima di quel Sabato e per motivi di opportunità (contrariamente a quanto succedeva normalmente, con i crocifissi che venivano lasciati per più giorni ad agonizzare, e ancora restavano appesi dopo la morte come monito per i passanti) era stato tirato giù dalla croce, ormai morto, prima del tramonto, e sepolto in fretta. Tanto che alcune delle donne che lo seguivano avevano dovuto aspettare dopo il sabato per andare a imbalsamare il suo corpo.
In ‘quel giorno dopo il sabato’ erano già successe alcune cose:
le donne, andate al sepolcro al mattino presto, avevano trovato la tomba vuota.
Lc 24, 1-3


Anche Pietro e Giovanni, avvisati da Maria di Magdala, erano andati al sepolcro, trovandolo vuoto.
Gv 20, 2-10
Durante la giornata, presumibilmente nel pomeriggio (dovevano percorrere undici chilometri a piedi e erano arrivati a destinazione quando era già sera) due dei discepoli, diretti a Emmaus, avevano avuto una sorpresa.
Lc 24, 13-35

il primo della settimana,

Per noi che siamo abituati a pensare al lunedì come il primo giorno, considerando il sabato e la domenica come il fine settimana, viene abbastanza facile pensare che anche per gli ebrei il primo giorno della settimana fosse quello che veniva dopo la festività settimanale (in questo caso, per loro, il Sabato). Però per i cristiani ‘il primo giorno della settimana’ era ed è tuttora il giorno della resurrezione di Gesù, quella che per noi è diventata la Domenica. Quindi, pur tenendo conto dell’abitudine anglosassone del week end, ormai diventata linguaggio comune anche da noi, per i cristiani la domenica non è l’ultimo giorno della settimana, ma il primo, quello che dà il senso a tutta la settimana. Al di là della questione del riposo settimanale (questione non trascurabile, in una società sempre più incasinata dal punto di vista degli orari lavorativi), la domenica per noi è, o dovrebbe essere, il giorno in cui ‘carichiamo le batterie’ per essere in grado di vivere bene tutto il resto della settimana, con l’aiuto delle indicazioni ricevute dalla Parola di Dio e con il nutrimento ricevuto dall’Eucarestia.

mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».

Com’è fatto Gesù risorto? La resurrezione è un evento divino, spirituale e mistico? Gesù dopo la resurrezione torna a essere il Verbo divino che esisteva dal principio? (Gv 1,1) Ma il suo corpo, che fine fa? Se proviamo ad andare a curiosare nei racconti della resurrezione troviamo delle cose interessanti. La prima la troviamo qui: ‘mentre erano chiuse le porte’. Poco dopo Giovanni scrive: ‘venne Gesù, a porte chiuse’. Gesù può entrare in un posto anche a porte chiuse, quindi non ha più i limiti imposti da un corpo fisico. Quindi la resurrezione è un evento spirituale. Però…

Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 


Quello che fa Gesù risorto ha qualche connotato un po’ meno spirituale. I discepoli vedono qualcosa che Gesù sta mostrando loro. E quello che vedono ha una caratteristica curiosa: Gesù mostra le mani e il fianco. E cos’hanno di speciale le mani e il fianco? Evidentemente portano ancora le tracce delle ferite della crocifissione: i chiodi e il colpo di lancia. Altrimenti che senso ha mostrarli?  È strano che si vedano queste ferite, almeno se consideriamo la resurrezione come evento solo spirituale. Che ci fanno le ferite? Gesù è riuscito a risorgere, a vincere la morte, e non è stato capace di guarirsi le ferite? Molto strano. Ma non finisce qui. Tommaso ci fa scoprire qualcosa di più.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Prima di vedere che succede a Tommaso, notiamo come Gesù, nel momento dell’incontro da risorto con i suoi discepoli, dia il via a quello che succederà dopo: ‘ora tocca a voi’, dice agli apostoli e alle donne. Il movimento di andare a raccontare si ripete molte volte negli episodi della resurrezione:

Gli undici discepoli ... quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Mt 28, 16-20

Tornate dal sepolcro, (le donne) annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Lc 24, 9

(i due di Emmaus) partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Lc 24, 33-35

Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto. Gv 20, 18

Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Gv 21, 24

Per inciso, è da notare che, insieme allo stupore e alla gioia nell’incontrare il Risorto, molto spesso è presente il dubbio e l’incredulità, altro connotato di ‘normalità’ della situazione personale dei discepoli. Non sono un gruppo di invasati creduloni, hanno dubbi, perplessità, incredulità e paure.

Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite. Mc 16, 8

Tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Lc 24, 9-11

Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Lc 24, 37-38

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.

Torniamo alle domande sulla forma di Gesù quando si presenta agli apostoli. La prima cosa interessante che scopriamo è che ne manca uno. Tommaso non c’è. Gesù si fa vedere e lui non si fa vedere. Qualche spiritoso ha proposto Tommaso come patrono dei non praticanti: se Cristo si rende presente nei sacramenti e in particolare nell’Eucarestia, chi partecipa lo incontra e chi non partecipa si perde l’occasione.
C’è ancora un particolare riguardo a Tommaso. Giovanni riferisce che è chiamato Didimo, cioè gemello. È possibile che avesse un fratello gemello, da cui il nomignolo. E chi è il gemello di Tommaso? Storicamente non ne sappiamo nulla, ma alcuni padri della chiesa hanno suggerito una riflessione spirituale interessante: il gemello di Tommaso è ciascuno di noi. E in effetti con Tommaso condividiamo alcune caratteristiche. La prima è. come abbiamo visto, quella di non esserci qualche volta quando dovremmo esserci. La seconda, come vedremo ora, quella di voler toccare e sperimentare in prima persona.

Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Nominiamo Tommaso anche patrono degli scettici.

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».

l'incredulità di san Tommaso, Caravaggio

Prima di vedere alcune cose riguardo a Tommaso e alla sua fede scettica, ancora un particolare sulla resurrezione di Gesù: ‘metti qui il tuo dito … metti la mano nel mio fianco’. Siamo passati da un Gesù che entra a porte chiuse a un Gesù che non solo viene visto e guardato, ma che invita Tommaso a toccarlo. E toccare è un gesto alquanto fisico e materiale. Gesù nella sua resurrezione porta con sé il corpo, e non solo, ma il corpo con ancora i segni della crocifissione, quindi lo stesso corpo che aveva prima della morte.
Torniamo a Tommaso, e notiamo un particolare che a me sembra molto importante. Gesù lo invita a toccarlo e poi gli dice: ‘non essere incredulo, ma credente!’. Affermazione assai strana. Nella nostra concezione (non saprei come definirla: occidentale? Illuministica? Scientifica?) credere e verificare sono termini antitetici. Se posso verificare e ‘toccare’ non ho più bisogno di credere, mentre se a qualcosa devo crederci è perché non è possibile verificarlo e dimostrarlo. Eppure Gesù invita Tommaso a essere credente proprio perché ha visto e toccato.

Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù insiste sul legame vedere-credere. E aggiunge una frase che è sempre stata considerata come una definizione e un elogio del credente: colui che crede senza vedere. Mi permetto di dubitare che Gesù volesse dire questo, perché tutto quello che ha detto prima va esattamente nella direzione opposta: Gesù si mostra, si fa vedere, si fa toccare, sfida i presenti a riconoscerlo come quello che qualche giorno prima avevano visto sulla croce, di cui porta persino ancora i segni. Insomma, un Gesù molto concreto, visibile, tangibile, e che per di più chiede agli apostoli di appoggiare la propria fede proprio sull’aver visto, toccato e verificato. E non è solo Giovanni che evidenzia questo aspetto. Anche i resoconti di Luca riportano questa sottolineatura da parte di Gesù:

Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Lc 24, 37-42

La frase di Gesù va collegata, credo, con tutte le altre cose che ha detto e fatto prima. Gesù dà incarico a chi lo ha visto, toccato e incontrato di essere testimone come per rassicurare tutti quelli che verranno dopo: Tommaso, tu hai visto, ora sii tu l’appoggio per la fede di chi non ha visto me ma vede te. Questo vale per gli apostoli, che diventeranno così i pilastri della fede della chiesa, che non a caso si definisce ‘apostolica’.
E così i credenti cristiani, secondo quello che suggerisce il vangelo, non sono quelli che credono a qualcosa che non sanno conoscere, spiegare, capire e vedere, ma esattamente l’opposto: hanno visto, conosciuto, capito, sperimentato quanto basta per potersi fidare delle testimonianze e delle indicazioni ricevute.
È vero, non crediamo in qualcosa di dimostrabile in senso scientifico, ma in qualcosa di credibile, verificabile, studiabile, raggiungibile: testimonianze, testi, documentazioni, studi, appoggi archeologici. Non sono sufficienti per tutti, questo sì. E il dibattito, la discussione, il confronto con chi non riconosce sufficienti queste testimonianze è sempre vivo, e aiuta a rendere viva la nostra fede, che non è tanto credere quanto fidarsi.

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. 

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Gv 19, 35

martedì 17 aprile 2012

berlicche 13


Mio caro Malacoda,
mi pare che ti ci vogliano troppe pagine per narrare una storia molto semplice. La cui conclusione è che ti sei lasciato sfuggire il tuo giovanotto dalle dita. La situazione è gravissima. E io non vedo proprio ragione alcuna per la quale dovrei proteggerti dalle conseguenze della tua incapacità.
Un pentimento e un rinnovamento di ciò che l’altra parte chiama ‘grazia’ della grandezza che tu descrivi, è una sconfitta di prim’ordine. Equivale a una seconda conversione, e probabilmente a un livello più profondo della prima. Come avresti dovuto sapere, la nube asfissiante che ti ha impedito di attaccare il paziente nella sua passeggiata di ritorno dal vecchio mulino è un fenomeno ben noto. È l’arma più barbarica del Nemico, e generalmente vien fuori quando egli è direttamente presente al paziente in certe maniere non ancora perfettamente classificate. Alcuni esseri umani ne sono circondati in permanenza, e rimangono perciò inaccessibili a noi.
Veniamo ora alle tue balordaggini. Secondo la tua stessa confessione, dapprima hai permesso al tuo paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva, e non per poter far poi osservazioni intelligenti con i suoi nuovi amici. In secondo luogo gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino e di prendervi il tè; una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva, e fatta da solo. In altre parole, gli hai permesso due veri, positivi piaceri. Sei stato così ignorante da non vederne il pericolo? La caratteristica dei Dolori e dei Piaceri è che non si può sbagliare sulla loro realtà, e perciò, in quanto esistono, offrono all’uomo che li prova una pietra di paragone con la realtà. Così, sei ti fossi provato a dannare il tuo giovanotto con il metodo romantico, facendone una specie di cavaliere Aroldo e di Werther immerso in un sentimento di compassione personale per cordogli immaginari, avresti dovuto far sì che non provasse in nessun modo un dolore vero. Perché, naturalmente, cinque minuti di genuino mal di denti rivelerebbero i dolori romantici per quell’assurdo che sono e metterebbero a nudo il tuo stratagemma. Ma ti eri messo a dannare il tuo paziente per mezzo del mondo, vale a dire col presentare la vanità, il daffare, l’ironia e il tedio costoso come se fossero dei piaceri. Come non sei riuscito a capire che un piacere vero era l’ultima cosa che avresti dovuto lasciargli incontrare? Come non hai previsto che avrebbe proprio annientato tutto l’inganno che tanto laboriosamente gli hai insegnato a valutare? E che quel genere di piacere che il libro e la passeggiata gli davano era il più pericoloso di tutti? Che gli avrebbe tolto tutta quella specie di crosta che eri riuscito a formargli sulla sua sensibilità e fatto sentire che stava tornando a casa, che stava guarendo? Come preliminare allo staccarlo dal Nemico dovevi staccarlo da se stesso, e avevi già fatto un po’ di progresso si questa linea. Ora tutto è disfatto.
Naturalmente so benissimo che anche il Nemico vuole distaccare gli uomini da se stessi, ma in modo diverso. Ricorda sempre che a lui quel piccoli vermi piacciono veramente, e che pone un assurdo valore assoluto sulla distinzione di ciascuno di loro. Quando dice che devono perdere il loro io, intende solamente dire che devono abbandonare la volontà propria; una volta fatto ciò, in realtà dà loro indietro tutta la loro personalità, e si vanta (sinceramente, temo) che se saranno completamente suoi saranno più che mai se stessi. Quindi, mentre gode nel vederli sacrificare perfino le loro innocenti volontà a lui, odia di vederli allontanare dalla loro natura per qualsiasi altra ragione. E noi invece dovremmo sempre incoraggiarli a farlo. Le più profonde simpatie e i più profondi impulsi di qualsiasi uomo sono la materia prima, il punto di partenza, del quale il Nemico lo ha fornito. Allontanarlo da essi è sempre un punto guadagnato. Perfino in cose indifferenti è sempre desiderabile sostituire le misure del mondo, o della convenzione, o della moda, al posto di ciò che veramente piace o dispiace a un essere umano. A mio avviso andrei molto lontano su questa strada. Mi proporrei come regola di sradicare dal mio paziente qualsiasi forte gusto personale, che non sia un vero peccato, anche nel caso fosse una cosa innocua, come il tifo per il gioco del cricket della sua provincia, o per la collezione di francobolli, o per il cacao. Tali cose, te lo concedo, non hanno nulla della virtù; ma c’è in esse una specie di innocenza, di umiltà e di dimenticanza di sé della quale non mi fido. Colui che gode veramente e disinteressatamente di qualsiasi cosa del mondo, per se stessa, e senza che gliene importi un fico secco di ciò che ne dice la gente, è per ciò stesso armato contro alcuni dei nostri più sottili modi di attaccare. Dovresti sempre preoccuparti di far sì che il tuo paziente abbandoni le persone, o il cibo, o i libri che veramente gli piacciono in favore delle persone ‘migliori’, del cibo ‘giusto’, dei libri ‘importanti’. Ho conosciuto un essere umano che ha trovato le difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancora più forte per la trippa e le cipolle.
Rimane da considerare il modo di riparare al disastro. La cosa migliore è di impedirgli di fare alcunchè. Non importa la sua opinione, anche se elevata, riguardo al nuovo pentimento, purchè non ne faccia un principio di azione. Fa’ in modo che il piccolo bruto si avvoltoli in se stesso. Vi scriva su magari un libro, se ne sente l’inclinazione; è spesso un modo eccellente di sterilizzare i semi che il Nemico pianta in un’anima umana. Lasciagli fare qualsiasi cosa, purchè non venga all’azione. Nessuna quantità di pietà nella sua immaginazione e nei suoi affetti potrà recarci danno, se riusciamo a tenerla lontana dalla sua volontà. Come ha detto uno degli esseri umani, le abitudini attive sono rafforzate per mezzo della ripetizione, ma le passive vengono indebolite. Più spesso egli sentirà senza agire e meno sarà capace di passare all’azione, e con l’andar del tempo sarà meno capace di sentire.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche


domenica 8 aprile 2012

adesso non basteranno più le labbra...

Bisogna trovarsi un posto in una qualche chiesa, dove la grande preghiera si compia nella dovuta maestà, con molte al­tre anime sorelle che preghino accanto. L'anima è vinta; è sopraffatta dalla forza con cui il santo dramma pasquale preme sui suoi sentimenti: se una preghiera collettiva non la sostiene, se il culto non interpreta per essa l'inenarrabile gemito, essa resterà muta e esterrefatta. Troppo c'è da os­servare, da meditare, da rivivere.
Giovedì Santo: è il mistero della sera che raccolse il testa­mento di lui, il congedo, l'addio, straziante di consapevolezza, di tenerezza, di sforzo per rimanere, per ritornare. Allora, allo­ra sgorgano le parole in cui tutta fluisce la Vita; e si infonde, si nasconde nel Pane e nel Vino.
Venerdì Santo, giorno grande ed amaro. Nessuna liturgia ha la potenza di questo giorno. Tutto vi è esaltato ad un solo scopo: esprimere e ricordare la morte del Salvatore.
Sabato Santo: perché siete assopiti dall'accidia dell'ora: perché distratti dal turbine delle cose? Perché dormite? Non vedete che Cristo è alto sopra il Cielo come un Sole in meriggio?


Albrecht - resurrezione
Pasqua di Risurrezione: liturgia della novità! Liturgia del­l'ineffabile! Liturgia della gioia! Liturgia della bellezza! Litur­gia della luce, della pace, della speranza, della vita! L'anima che contempla vuol tutto dire e ancora balbetta, canta e le esce un solo grido dal petto: alleluia! Cristo è risorto: trionfo unico, defi­nitivo, universale della vita; scaturigine d'inesausta gioia e d'indicibile speranza. E come finirà questo tripudio di vita, per noi che restiamo nella valle di lacrime? Come riprenderemo contatto con la vita terrena? Quale ritorno! Ritornare da un sepolcro trasformato in porta per la vita immortale: la novità deve per sempre rimanere!
Cristo è la luce. Cristo è il giorno. Che dire? Un solo grido: alleluia! Una luce forte e calda emana da lui. Ora la vita è bel­la.
Alleluia!
Il mistero dell'aldilà rimane, ma questa vita ne è rischiarata!
Alleluia!
Cristo è apparso con le braccia distese e le mani forate.
E ci dice: questa è la forma, questo è l'esempio.
Dovunque è la Croce. Dovunque è la luce di vita.
Bisogna esser crocifissi con lui per risorgere con lui.

Paolo VI, papa

sabato 7 aprile 2012

sabato santo

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.
Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.
Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura.


Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta. Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all'albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire. Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell'inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.
Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l'eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli».

 Da un'antica «Omelia sul Sabato santo»

venerdì 6 aprile 2012

venerdì santo

Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo.  Egli prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza e distrusse la morte omicida. Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto. Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Egli è la Pasqua della nostra salvezza. Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti.
 
Edvard Munch . Golgotha - 1900

Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato. Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato. Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnello senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione. Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro.

Melitone di Sardi, «Omelia sulla Pasqua»

giovedì 5 aprile 2012

giovedì santo

Il Signore ha definito la pienezza dell'amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri con queste parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Ne consegue ciò che il medesimo evangelista Giovanni dice nella sua lettera: Cristo «ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», (1 Gv 3, 16) amandoci davvero gli uni gli altri, come egli ci ha amato, fino a dare la sua vita per noi. Questo appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Quando siedi a mensa col potente, considera bene che cosa hai davanti; e poni mano a far le medesime cose che fa lui (cfr. Pro 23, 1-2). Ora qual è la mensa del grande e del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la vita per noi? E che significa assidersi a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? E che vuol dire considerare bene che cosa si ha davanti, se non riflettere, come si conviene, a una grazia sì grande? E che cosa è questo porre mano a far le medesime cose se non ciò che ho detto sopra e cioè: come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo essere disposti a dare la nostra vita per i fratelli? E` quello che dice anche l'apostolo Pietro: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2, 21). Questo significa fare le medesime cose. Così hanno fatto con ardente amore i santi martiri e, se non vogliamo celebrare inutilmente la loro memoria, se non vogliamo accostarci infruttuosamente alla mensa del Signore, a quel banchetto in cui anch'essi si sono saziati, bisogna che anche noi, come loro, siamo pronti a ricambiare il dono ricevuto. 


A questa mensa del Signore, perciò, noi non commemoriamo i martiri come facciamo con gli altri che riposano in pace, cioè non preghiamo per loro, ma chiediamo piuttosto che essi preghino per noi, per ottenerci di seguire le loro orme. Essi, infatti, hanno toccato il vertice di quell'amore che il Signore ha definito come il più grande possibile. Hanno presentato ai loro fratelli quella stessa testimonianza di amore, che essi medesimi avevano ricevuto alla mensa del Signore. Non vogliamo dire con questo di poter essere pari a Cristo Signore, qualora giungessimo a rendergli testimonianza fino allo spargimento del sangue. Egli aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla, mentre noi non possiamo vivere finché vogliamo, e dobbiamo morire anche contro nostra voglia. Egli, morendo, uccise subito in sé la morte, mentre noi veniamo liberati dalla morte solo mediante la sua morte. La sua carne non conobbe la corruzione, mentre la nostra, solo dopo aver subito la corruzione, rivestirà per mezzo di lui l'incorruttibilità alla fine del mondo. Egli non ebbe bisogno di noi per salvarci, ma noi, senza di lui, non possiamo far nulla. Egli si è mostrato come vite a noi che siamo i tralci, a noi che, senza di lui, non possiamo avere la vita. In fine, anche se i fratelli arrivano a dare la vita per i fratelli, il sangue di un martire non viene sparso per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli ha fatto per noi. E con questo ci ha dato non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati. I martiri dunque, in quanto versarono il loro sangue per i fratelli, hanno ricambiato solo quanto hanno ricevuto dalla mensa del Signore. Manteniamoci sulla loro scia e amiamoci gli uni gli altri, come Cristo ha amato noi, dando se stesso per noi.

 sant'Agostino, «Trattati su Giovanni»

 

lunedì 2 aprile 2012

fiducia sconfinata

Che cosa mai non devono aspettarsi dalla grazia di Dio i cuori dei fedeli! Infatti il Figlio unigenito di Dio, coeterno al Padre, sembrandogli troppo poco nascere uomo dagli uomini, volle spingersi fino al punto di morire quale uomo e proprio per mano di quegli uomini che egli stesso aveva creato. Gran cosa è ciò che ci viene promesso dal Signore per il futuro, ma è molto più grande quello che celebriamo ricordando quanto è già stato compiuto per noi. Come si può dubitare che egli darà ai suoi fedeli la sua vita, quando per essi, egli non ha esitato a dare anche la sua morte? Perché gli uomini stentano a credere che un giorno vivranno con Dio, quando già si è verificato un fatto molto più incredibile, quello di un Dio morto per gli uomini? Chi è infatti Cristo? E' colui del quale si dice: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»? (Gv 1, 1). Ebbene questo Verbo di Dio «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). 


 
Egli non aveva nulla in se stesso per cui potesse morire per noi, se non avesse preso da noi una carne mortale. In tal modo egli immortale poté morire, volendo dare la vita per i mortali. Rese partecipi della sua vita quelli di cui aveva condiviso la morte. Noi infatti non avevamo di nostro nulla da cui aver la vita, come lui nulla aveva da cui ricevere la morte. Da qui lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita. Dunque non vergogna, ma fiducia sconfinata e vanto immenso nella morte del Cristo. Prese su di sé la morte che trovò in noi e così assicurò quella vita che da noi non può venire. E allora non ci darà ora quanto meritiamo per giustizia, lui che è l'artefice della giustificazione? Come non darà il premio dei santi, lui fedeltà personificata, che senza colpa sopportò la pena dei malvagi? Dichiariamo perciò, o fratelli, senza timore, anzi proclamiamo che Cristo fu crocifisso per noi. Diciamolo, non già con timore, ma con gioia, non con rossore, ma con fierezza. L'apostolo Paolo lo comprese bene e lo fece valere come titolo di gloria. Poteva celebrare le più grandi e affascinanti imprese del Cristo. Poteva gloriarsi richiamando le eccelse prerogative del Cristo, presentandolo quale creatore del mondo in quanto Dio con il Padre, e quale padrone del mondo in quanto uomo simile a noi. Tuttavia non disse altro che questo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6, 14).

sant'Agostino, 'Discorsi'