martedì 22 ottobre 2013

lettera

Lettera ai figli del piagnisteo: la vostra Italia è meglio della nostra
Noi vivevamo in un Paese più povero, che però non si lamentava

Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. È meglio adesso. Un adolescente dell'Italia di oggi è l'uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento.Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l'acqua corrente, che i miei nonni da giovani avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore. Va al mare, in campeggio, in discoteca, all'estero su voli low cost, ai fast food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi. Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni Sessanta e Settanta, avevamo la tv in bianco e nero, e aspettavamo con ansia le otto di sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, tifando invano contro lo struzzo e per Wile E. Coyote (che chiamavamo Willy). Avevamo letto Pinocchio e il libro Cuore. Sandokan e Orzowei ci parvero la modernità. L'Italia su cui aprivamo gli occhi non era il paradiso in terra. Anzi, era senz'altro peggiore di quella di oggi. Era un Paese scosso da tensioni, talora da tragedie. Era un Paese più inquinato: fabbriche in città, acciaierie in riva al mare, ciminiere, smog. Era un Paese più violento: bombe fasciste, agguati brigatisti, sequestri come quello di Cristina Mazzotti. Era un Paese più maschilista, in cui i «femminicidi» non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un «delitto d'onore», spesso non finiva neppure in galera. Era un Paese più semplice, con meno aspettative e meno pretese. Non si festeggiava Halloween ma si piangevano i Morti. La marcia più alta era la quarta. C'erano la leva obbligatoria e i maneggi per evitarla, la visita militare, la naja, il car, il nonnismo. I calciatori andavano in vacanza in Riviera sotto l'ombrellone e non in Polinesia. La mafia ufficialmente non esisteva, ma in Sicilia era molto più potente di adesso, anche perché in pochi la combattevano. A Napoli c'era il colera. Ma in ogni città c'erano molti più bambini, e non erano chiusi in casa, a giocare con il Nintendo o l'iPhone o l'iPad, a simulare sport con la Wii, a festeggiare il compleanno con gli animatori ingaggiati dalla mamma, i palloncini, le facce dipinte e i giochi organizzati. Si giocava per strada: a nascondino, ai quattro cantoni sul sagrato della chiesa, a palla avvelenata con le ragazze, a pallone con i maschi, fino a quando non interveniva il vigile o il padrone dell'auto che faceva da porta. Avevamo sempre le ginocchia e i gomiti sbucciati. L'Italia di allora era molto più modesta e povera dell'Italia di oggi. Ma era un Paese che non si lamentava. Per questo mi piacerebbe raccontarlo ai nostri ragazzi, che si lamentano molto, a volte con ragione e a volte no. Lo so che i nostri giovani hanno di che piangere. L'Italia tratta in modo scandaloso i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti. Non gli offre un lavoro. Soprattutto, non li prepara alle difficoltà che incontreranno. Viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi (spesso anche grassi). Provate a fare un giro davanti a un liceo romano o milanese: non c'è una bicicletta. Hanno tutti lo scooter, o il papà che li porta in macchina. E la colpa, se si deprimono davanti ai primi ostacoli, non è loro; è nostra. Noi avevamo invece una fortuna: il collegamento tra le generazioni era solido. Non avevamo vissuto la fame e la guerra; ma sapevamo che c'erano state. Non abbiamo memoria diretta della ricostruzione e del boom; ma ne avevamo assorbito l'energia. I nonni non erano simpatici vecchietti che venivano in visita ogni tanto, portando regali e inventandosi qualsiasi cosa per strappare un sorriso ai nipoti. Vivevamo con loro. Mia bisnonna Matilde, detta Tilde, sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le mie prime pene d'amore. Nonno Lorenzo aveva fatto la Grande Guerra e visto i compagni di prigionia morire di tifo; non mi potevo lamentare per il morbillo (che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia). L'altro nonno, Aldo, a 12 anni faceva il garzone in una macelleria, e andava a piedi per sedici chilometri da Canale ad Alba: non aveva la bicicletta né i soldi per la corriera, e non sarebbe mai salito sulla corriera senza biglietto. Neppure nonno Aldo era la persona giusta con cui lamentarsi se non mi compravano il motorino. Quel poco che avevamo era infinitamente più di quello che avevano avuto i nostri genitori e i nostri nonni. Era questa consapevolezza che ci impediva di piagnucolare. Anche perché in casa c'era sempre qualcuno che, se ti vedeva triste, abbattuto, scoraggiato, ti diceva: «Adesso basta piangere!».

Aldo Cazzullo
 
(20 ottobre 2013) - Corriere della Sera

sabato 19 ottobre 2013

uno su dieci



 
Lc 17, 11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».

Lascio la riflessione su questa invocazione alla fine del commento, perché nel quadro dell’episodio mi sembra possa offrire uno spunto interessante.

Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».

Gesù, che potrebbe agire da solo, in alcune occasioni rimanda le persone ai sacerdoti. In particolare nel caso di lebbrosi, per i quali, secondo la legge di Mosè, occorreva la ‘certificazione’ da parte dei sacerdoti dell’avvenuta guarigione:

Venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”. Mc 1, 40-44

Una precisazione: il termine ‘lebbra’ così come è usato nella Bibbia non indicava necessariamente il morbo di Hansen. Indicava più genericamente ogni malattia che causava ulcere e che portava con sé il rischio di contagio, ovviamente secondo le limitate conoscenze scientifiche e mediche del tempo. Il rischio di contagio e quindi di pericolo per tutta la popolazione giustificava l’isolamento in cui venivano costretti i lebbrosi (è stato così in molte parti del mondo fino a non molti anni fa). Insomma, una specie di rudimentale quarantena.


Tornando però al significato che Gesù dà a questo suo invito a presentarsi ai sacerdoti, se ne può ricavare una riflessione che credo importante: Gesù ne riconosce l’autorità, anche se a volte si scontra con loro o mette in discussione la loro correttezza o coerenza.

Si avvicinarono i sommi sacerdoti e gli scribi con gli anziani e si rivolsero a lui dicendo: “Dicci con quale autorità fai queste cose o chi è che t'ha dato quest'autorità”. E Gesù disse loro: “Vi farò anch'io una domanda e voi rispondetemi: Il battesimo di Giovanni veniva dal Cielo o dagli uomini?”. Allora essi discutevano fra loro: “Se diciamo "dal Cielo", risponderà: "Perché non gli avete creduto?". E se diciamo "dagli uomini", tutto il popolo ci lapiderà, perché è convinto che Giovanni è un profeta”. Risposero quindi di non saperlo. E Gesù disse loro: “Nemmeno io vi dico con quale autorità faccio queste cose”. Lc 19, 1-8

Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro dicendo: “Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!”. L'udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento. Mc 11, 15-18

I sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono e gli dissero: “Non senti quello che dicono?”. Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto: Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurata una lode?”. Mt 21, 15-16

Mai Gesù bypassa l’autorità sacerdotale. Riferendo questa sua sottolineatura alla situazione di oggi, potremmo notare come per Gesù sempre la Chiesa (intesa in questo caso come gerarchia) mantiene una grande importanza. È Gesù stesso che ha dato un ruolo preciso a Pietro e ai Dodici, benchè poi non tutti e non sempre siano stati in grado di mantenere elevato il proprio ruolo e il proprio comportamento. Tra di Dodici uno ha tradito, uno ha rinnegato e tutti nel momento della passione di Gesù sono fuggiti. Quello che poi ha combinato in alcun casi la gerarchia ecclesiastica nei tempi successivi lo sappiamo tutti. Eppure Gesù non disconosce neppure l’autorità dei Sommi Sacerdoti. È da loro che accetta il giudizio, accettandone l’autorità. Come già detto, non esita però anche a metterne in discussione il comportamento e soprattutto la non volontà di mettersi al servizio della Legge divina, distorcendola e snaturandola:

Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate … lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?”. Ed egli rispose loro: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. E aggiungeva: “Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”.  Mc 7, 1-13


Ma nonostante tutto ciò l’autorità sacerdotale, allora come oggi, mantiene il proprio significato e ruolo, anche per Gesù stesso. Tanto che, nell’evoluzione successiva e nel passaggio dal sacerdozio del tempio a quello ministeriale del cristianesimo, questa importanza è ancora aumentata in riferimento alla celebrazione dei sacramenti, che nella fede ebraica non c’erano. Arrivato Cristo e avendoci lasciato nei sacramenti la sua presenza, il ruolo di chi li celebra ha assunto una importanza notevolissima. Tanto è vero che anche chi non riconosce nessun significato alla chiesa o nessuna autorità ai preti, però li va a cercare per ricevere i sacramenti (pensiamo al battesimo, o alla prima comunione, o alla messa di funerale in chiesa). Senza la Chiesa non ci sono sacramenti. Ovviamente se la Chiesa e noi preti ci comportiamo all’altezza del nostro compito e della nostra responsabilità, la nostra credibilità ne guadagna molto. Però l’efficacia dei sacramenti non è legata alla correttezza di chi li celebra. La messa celebrata da un prete indegno rende presente Cristo allo stesso modo della messa celebrata da un prete santo. Questa è stata la garanzia (e anche la grande responsabilità) che Cristo ha voluto legare alla chiesa: essere sempre strumento di salvezza, che provenendo da Dio ottiene sempre il suo obiettivo, per quanto lo strumento possa essere inadeguato o disastrato.
Quindi Gesù riconosce autorità e compito affidato ai sacerdoti. Ma la seconda parte dell’episodio completa il quadro aggiungendo un aspetto altrettanto importante.

E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?

L’azione di Dio, sia in Gesù che successivamente nei sacramenti, non è una magia. È un intervento che richiede la collaborazione e la partecipazione di chi lo riceve. Se guardiamo alla realtà di oggi nel paese in cui viviamo notiamo subito una grandissima sproporzione tra chi si dichiara credente, più o meno genericamente e ‘a modo suo’, e chi si professa praticante, cioè riconosce l’importanza e l’efficacia dei sacramenti, e vi si accosta regolarmente.
Questa proporzione è all’incirca uno su dieci. Il 90% dei battezzati qui in Italia non è praticante regolarmente. Ci sono, è vero, molte fasce intermedie. Una l’abbiamo notata prima: chi non è praticante ma qualche sacramento lo vuole ricevere, solitamente una tantum. C’è chi è poco praticante, chi lo è a seconda dei propri stati d’animo, chi lo è solo di alcuni ‘servizi’ e di altri no (ad esempio chi non va a messa ma va spesso in pellegrinaggio…).
Questa proporzione di uno a dieci nell’episodio dei lebbrosi ci offre un parallelo interessante, anche per alcune provocazioni che fa Gesù. In particolare la domanda sugli altri nove. Uno su dieci torna a lodare Dio e a ringraziare. E a lui Gesù fa questa domanda: dove sono gli altri nove?
In questo uno su dieci che loda Dio e lo ringrazia possiamo intravedere il 10% dei credenti che sono anche praticanti: la lode a Dio è il ringraziamento (eucharistò in greco, lingua dei vangeli, da cui eucaristia) sono ciò che fanno i praticanti, quelli che vanno a messa, ogni domenica. Ecco, a noi che andiamo a messa la domenica Gesù fa questa domanda: e gli altri? Non possiamo disinteressarcene. Dobbiamo rispondere a quella domanda. Non possiamo ignorarla. E gli altri? Ci pensiamo mai? Cosa facciamo perché possano anche loro possano incontrare Cristo come noi? E quindi dobbiamo chiederci anche perché loro non vengono. Ci saranno dei motivi. Forse sono motivi superficiali, ma potrebbero anche essere dei motivi seri e ragionati. Magari non vengono, o non vengono più per colpa nostra. Non possiamo fare come Caino:

Il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Gn 4, 9

Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Tutti vengono guariti (cosa che dipende unicamente dall’azione di Dio) ma uno solo viene salvato (cosa che dipende anche dalla nostra collaborazione).
Ed eccoci alla riflessione finale che questo episodio mi ha suscitato: noi praticanti, noi 10%, siamo quelli che hanno riconosciuto che senza l’azione di Dio nella nostra vita saremmo dei poveretti. Ecco allora il senso dell’invocazione iniziale: ‘abbi pietà di noi’. Noi che  andiamo a messa la domenica non siamo i migliori, forse siamo i peggiori. E allora abbiamo capito di aver bisogno del Signore. Di aver bisogno della sua pietà, della sua vicinanza, del suo sostegno. Davvero senza di lui non siamo capaci di far nulla. Allora ogni domenica andiamo da lui per chiedere che ci stia vicino, che faccia attenzione a noi, alle nostre necessità ma soprattutto ai nostri limiti e anche ai nostri peccati. Ecco perché molte volte nel rito della messa questa invocazione riemerge: ‘Signore, pietà’. ‘Tu che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi’, ‘Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi’. E nello stesso tempo andiamo a messa per ringraziare e per lodare Dio, come fa l’unico lebbroso che torna da Gesù.

Sono stato contattato da alcuni francescani del convento di Assisi. Inizialmente la cosa non ha riscosso da me grande entusiasmo perché non volevo fare un disco di musica devozionale: produzioni di questo genere le lascio volentieri a Radio Maria e alle Edizioni Paoline. Poi però questi francescani mi hanno conquistato perché io ho chiesto loro: "Per quale motivo scegliete me che sono un grande peccatore?" E loro, con il grande humour che è tipico dei francescani, hanno risposto: "Noi scegliamo te perché Dio sceglie sempre i peggiori". Allora mi sono messo a ridere e... a lavorare!



venerdì 11 ottobre 2013

inutili

Lc 17, 5-10


Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?


Ancora una volta l’immagine del servo, che a noi dà tanto fastidio, tanto più riferita al nostro mondo, in cui nessuno di noi ha servi a disposizione (almeno come li intendevano al tempo di Gesù). Ma legato a quel termine ce n’è un altro che è, credo, quello verso cui Gesù ci vuole portare: servizio. Essere servi non piace a nessuno, ma mettersi al servizio degli altri è certamente un atteggiamento che riconosciamo come importante. Tanto più Gesù, che lo ha fatto proprio:


Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Fil 2, 5-8


Quando ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica. Gv 13, 12-17


Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».


Ulteriore affondo di Gesù, che in questo testo è particolarmente antipatico: ‘dite: siamo servi inutili’. Se essere servi non piace, ancora meno piace essere inutili. Ma in lui abbiamo la chiave per capire queste parole. Cristo ha realizzato il proprio essere servo in modo completamente gratuito, non ha cercato la propria convenienza, ma la nostra. È stato davvero un servo ‘inutile’, cioè senza utile proprio.


Gesù, chiamati a sé i dodici, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Mc 10, 42-45


La dialettica servo-padrone ha occupato molte menti in una faticosa riflessione. Gesù ne dà una lettura che esce dai nostri soliti schemi. Come ho già notato, essere servi non piace a nessuno, ma quanto è essere padroni della propria vita scegliere liberamente di mettersi a servizio! Ma credo che solo in una prospettiva di vita eterna, quale ci ha rivelato Cristo, sia possibile comprendere a fondo questo servizio:


Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. Lc 12, 35-37



venerdì 4 ottobre 2013

Francesco d'Assisi




Dalla «Lettera a tutti i fedeli» di san Francesco d'Assisi

Come sono beati e benedetti coloro che amano il Signore e ubbidiscono al suo Vangelo! E' detto infatti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore e con tutta la tua anima, e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27). Amiamo dunque Dio e adoriamolo con cuore puro e pura mente, perché egli stesso questo ricerca sopra ogni cosa quando dice «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23). Dunque tutti quelli che l'adorano devono adorarlo in spirito e verità. Rivolgiamo a lui giorno e notte lodi e preghiere, perché dobbiamo sempre pregare e non stancarci mai (cfr. Lc 18, 1), e diciamogli: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6, 9). Facciamo inoltre «frutti degni di conversione» (Mt 3, 8) e amiamo il prossimo come noi stessi. Siamo caritatevoli, siamo umili, facciamo elemosine perché esse lavano le nostre anime dalle sozzure del peccato. Gli uomini perdono tutto quello che lasciano in questo mondo. Portano con sé solo la mercede della carità e delle elemosine che hanno fatto. E' il Signore che dà loro il premio e la ricompensa. Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne, ma piuttosto semplici, umili e casti. Non dobbiamo mai desiderare di essere al di sopra degli altri, ma piuttosto servi e sottomessi a ogni umana creatura per amore del Signore. E su tutti coloro che avranno fatte tali cose e perseverato fino alla fine, riposerà lo Spirito del Signore. Egli porrà in essi la sua dimora ed abitazione. Saranno figli del Padre celeste perché ne compiono le opere. Saranno considerati come fossero per il Signore o sposa o fratello o madre.

martedì 1 ottobre 2013

giustizia


Lc 16, 19-31 


«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.


Gesù presenta qui una parabola con molte connotazioni ‘estremiste’. Ma ogni tanto lo fa, e anche quando dice delle cose che ci irritano o ci danno fastidio occorre starlo a sentire. Non possiamo affettare Gesù e prendere solo quello che ci piace. Le persone non si affettano.L’immagine iniziale è quella di un ricco e di un povero. Entrambi estremamente caratterizzati dalla propria situazione. Il ricco è molto ricco. Il povero è molto povero. Purtroppo non è una situazione irreale. In molte zone del mondo il divario ricchissimi-poverissimi è molto alto. E anche qui in Italia, pur non essendoci forse una differenza così pronunciata, certamente e sempre di più si notano situazioni di disagio e di squilibrio sociale. La reazione di fronte a questo sbilanciamento porta a chiedersi: ma è giusto? È giusto che ci sia questo divario tra chi ha più di quanto gli serva e chi è costretto, per usare le parole di Gesù, a ‘sfamarsi con quello che cade dalla tavola del ricco’? Ovviamente la questione è molto complessa, e semplificarla ad esempio demonizzando i ricchi e esaltando i poveri, è scorretto. La stessa definizione di ‘ricco’ e di ‘povero’ è troppo semplicistica. Ma la questione rimane, ed è assai scottante. Pur senza considerare tutti i ricchi alla stregua di Paperon de’ Paperoni, egoisti che pensano solo ad accumulare, insensibili alle necessità dei poveri, la domanda sulla giustizia non può essere elusa. Il vangelo è sempre stimolo alla riflessione, ma occorre non dimenticare che questa riflessione deve sempre essere rivolta a se stessi in primo luogo, anche se può stimolare l’impegno sociale. Non è il vangelo, che pure non è tenero con i ‘ricchi’, a invitare ad aggredirli e a spogliarli. Il vangelo è sempre da usare come invito a meditare in se stessi, confrontandosi con la Parola di Dio, su come migliorare e correggere noi stessi. Anche in questa parabola l’invito è sempre quello di mettersi in discussione. E se chi lo legge e ascolta è ‘ricco’ è invitato a mettere discussione il proprio stile di vita.



Inoltre non dimentichiamo che la sensibilità verso l’uguaglianza sociale non è uno specifico cristiano. Molti, anche non cristiani, anche non credenti, si sentono in dovere di denunciare l’ingiustizia sociale e di fare qualcosa per combatterla. Infatti questo è solo il primo passo. Gesù prosegue aggiungendo un aspetto che è invece specifico per il credente, per il cristiano in particolare: la prospettiva della vita eterna e del giudizio di Dio.



Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 


Se non siamo stati capaci di fare giustizia noi, ci penserà Dio stesso, che è certamente misericordioso, ma non per questo meno giusto. Questa prospettiva del giudizio di Dio, che interverrà anche a equilibrare le ingiustizie, deve essere sempre tenuta presente nella nostra vita di cristiani, e deve essere uno stimolo ulteriore a creare situazioni di giustizia in questa vita. Anche per non incorrere in un giudizio divino, la cui prospettiva a volte viene passata sotto silenzio. Credo che invece un po’ di timore di questo giudizio (senza giungere all’eccesso opposto del terrore) ci farebbe bene.



Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.


Come dicevo prima, se non saremo capaci di fare giustizia, ci penserà Dio a mettere a posto le cose. Ma nella prospettiva cristiana il momento del giudizio di Dio è anche il momento della definitività. Questa prospettiva ci serva da stimolo a darci da fare ora, mentre siamo in tempo. Lo so che l’amore verso gli altri (e il conseguente impegno verso la giustizia) dovrebbe essere l’orizzonte continuo e quotidiano di ogni cristiano, e che non dovrebbe essere necessaria la ‘minaccia’ del giudizio per farci muovere, ma al di là del giudizio comunque la prospettiva della vita eterna non può essere ignorata dal cristiano, e questa prospettiva cambia tutta la visione della vita, stimolandoci a iniziare qui il modo di vivere e convivere che proseguirà per sempre.


Dopo una lunga e vita, un saggio giunse nell'aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un'occhiata anche all'inferno. Un angelo lo accontentò. Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt'intorno, erano smunti, pallidi, lividi e scheletriti da far pietà. "Com'è possibile?" chiese l'uomo alla sua guida "Con tutto quel ben di Dio davanti!". "Ci sono bacchette per mangiare, rispose l’angelo, ma sono lunghe un metro e devono essere rigorosamente impugnate all'estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca". Il saggio rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppure una briciola sotto ai denti. Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso. Qui lo attendeva una sorpresa. Il paradiso era un salone identico all’inferno. Dentro l’immenso salone c’era un’infinita tavolata di gente seduta davanti ad un’identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti delle stesse bacchette lunghe un metro, da impugnare all’estremità per portarsi il cibo alla bocca. C’era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. “Ma com’è possibile?”, chiese stupito. L’angelo sorrise: “All’inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché così si sono sempre comportati nella loro vita. Qui al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino”.


Fiaba cinese



E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».


L’ultimo messaggio della parabola è la constatazione che ciò che ci serve per stimolare la nostra azione è già a nostra disposizione: Mosè e i Profeti. Nel linguaggio biblico questo binomio (più frequentemente espresso con ‘la legge e i profeti’) riassume tutta la rivelazione.


La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi. Lc 16, 16


“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”. Mt 22, 37-40


Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Gv 1, 45



Quindi le indicazioni le abbiamo già, non c’è bisogno di aspettare chissà quale rivelazione. Se non facciamo quel che dobbiamo fare è per volontà e colpa nostra. Tanto che neppure una rivelazione potrebbe persuadere chi non volesse impegnarsi. ‘Neppure se uno risorgesse dai morti sarebbero persuasi’. E Uno che è risorto dai morti c’è, ma questo come abbiamo visto e continuiamo a vedere non è sufficiente per chi non lo vuole ascoltare.