domenica 31 dicembre 2023

Subiaco e dintorni

 

Subiaco: sacro Speco interno


Subiaco: sacro Speco interno

Subiaco: sacro Speco

Montecassino: tomba di san Benedetto e santa Scolastica

abbazia di Casamari

abbazia di Fossanova

Anagni: sala dello schiaffo

Anagni

domenica 24 dicembre 2023

Natale

Lc 2, 1-20 

…lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.

È facile rappresentarsi la scena della nascita di Gesù secondo il nostro immaginario occidentale, o secondo l’iconografia tradizionale che si è creata intorno al Natale (il presepe, la grotta, il bue, l’asinello…). Ma è sempre meglio cercare di attenersi al testo evangelico e, se vogliamo immaginarci la scena, almeno farlo in modo che sia il più realistica possibile. Allora scopriremo che nei testi evangelici ci sono delle sorprese interessanti: ad esempio non si parla né di grotta, né di bue, né di asino. A dire il vero non si parla neppure di una stalla, o almeno il richiamo a un posto dove ci sono degli animali porta con sé delle scene diverse da come ci potremmo immaginare. E a ben vedere non si dice neppure che la nascita di Gesù sia avvenuta di notte. Date un’occhiata al testo in modo attento e troverete delle sorprese. Io mi limito a fermarmi su un paio parole.

Alloggio
Nel testo originario in greco, la parola che usa Luca è katalyma. Il termine ha un significato riferito all’abitazione: può significare casa, camera, alloggio. Spesso in italiano è stato tradotto con ‘albergo’ o ‘locanda’, ma Luca, quando parla di locanda o albergo, usa un’altra parola: pandokeion (Lc 10, 34, parabola del buon Samaritano). La parola katalyma la usa in una sola altra occasione, e anche lì il riferimento è a un'abitazione privata: in 22,11 è la stanza in cui avverrà l’ultima cena. Le testimonianze archeologiche dimostrano come spesso le case della gente del popolo fossero divise in due locali, uno più in basso, usato come magazzino e ricovero per gli animali, e uno un po’ più rialzato destinato ad abitazione vera e propria. Quest'ultimo è il katalyma. Ho visto alcune di queste case in scavi archeologici in Israele. Giuseppe va con la moglie a Betlemme perché è il luogo di origine del suo casato, ed è credo realistico supporre che a Betlemme avesse qualche parente, per cui, tenendo conto anche dello stile mediorientale di aprire la propria casa a qualunque ospite, tanto più se parente, mi sembra poco credibile che i due sposi fossero andati a cercare un albergo o una locanda. È vero che è possibile che si fossero predisposti dei centri di accoglienza per i nuovi arrivati in occasione del censimento, ma mi sembra più credibile che i residenti a Betlemme avranno messo a disposizione le loro case ai parenti arrivati da lontano. Solo che questo portava a carenze di spazi, non c’era più posto nel katalyma, nella stanza principale, per cui si saranno utilizzati tutti i locali disponibili, anche i magazzini e i ricoveri degli animali. Che però non sono stalle, almeno non secondo la nostra accezione di ‘abitazioni degli animali’, ma locali in cui rinchiudere provvisoriamente gli animali stessi in caso di maltempo o durante la notte (cosa che non succedeva tra l’altro neppure sempre: nel racconto successivo alla nascita di Gesù i pastori vegliano all’aperto a guardia del gregge). Quindi, c’è poco spazio in casa dei parenti di Giuseppe, Maria sta per partorire, quindi che si fa? I due sposi vengono ospitati nel magazzino-stalla nella casa stessa, non in una grotta in mezzo alle montagne. Matteo, raccontando la visita dei Magi, in 2, 11 usa il termine oikian, cioè casa, non grotta, né stalla, né capanna.



Mangiatoia
Il termine che Luca usa è fatne. La traduzione è mangiatoia. Ma cosa si intende per mangiatoia? Da noi la mangiatoia o greppia è la parte della stalla che contiene il fieno o il mangime dato gli animali perché possano mangiare. Ma noi abbiamo inverni lunghi, e gli animali hanno bisogno di un posto fisso che li protegga e di un posto fisso per mangiare. Nell’ambiente mediorientale questo vincolo è molto meno forte. Gli animali hanno bisogno al più di un ricovero dove passare la notte, ma non necessariamente di una greppia da riempire di fieno. Inoltre la necessità di far seccare l’erba in estate per conservarla come fieno per l’inverno c’è solo in luoghi con inverni freddi come i nostri. A Betlemme e dintorni non si usava, per quel che ne so, seccare il fieno e darlo agli animali. Quindi non serviva neppure una greppia dove metterlo perché gli animali mangiassero. Quindi cosa sarà mai allora questa mangiatoia? Padre Innocenzo Gargano, monaco camaldolese, ha fatto notare una cosa che mi sembra interessante. È possibile che più che la mangiatoia degli animali quello di cui si parla qui fosse la ‘mangiatoia’ degli abitanti della casa, un posto pulito usato per contenere o conservare i cibi o il pane; oppure ancor meglio qualcosa di mobile, la bisaccia, il sacco, usato per metterci la scorta di cibo per il viaggio. Non dimentichiamo che Giuseppe e Maria arrivano da Nazareth, che è a circa 130 km da Betlemme. Allora perché non pensare la possibilità che il bambino sia stato messo nel posto più pulito che avevano a disposizione in quel momento, mentre erano stipati in quella stanza usata come magazzino e ricovero degli animali? Giuseppe o Maria prendono la cesta, la bisaccia, il sacco delle provviste, del pane (che ormai arrivati a Betlemme erano finite), e ci mettono dentro il bambino. Poteva essere anche una cassa o un contenitore per cibi, ma c’era il problema dell’impurità del parto, che si estendeva a tutto ciò che Maria avesse toccato, per cui mi sembra più plausibile che i genitori del bambino scegliessero qualcosa di loro proprietà, piuttosto che contaminare una parte della casa che li stava ospitando. Questa lettura della mangiatoia come sacco o cesta o contenitore del cibo, in particolare del pane, porta con sé una serie di suggestioni spirituali interessanti. Dio che si fa uomo, nasce in un minuscolo paesino che si chiama Betlemme, che significa ‘casa del pane’, e viene messo forse dentro la bisaccia del pane, lui che si donerà agli uomini come Pane nell’Eucarestia. Quella stessa Eucarestia che nella messa viene riproposta e messa a disposizione dei fedeli ogni domenica perché l’Emma-nu-el, il Dio-con-noi lo possano incontrare e vedere e anche mangiare per portarlo con sé nella vita di tutti i giorni.

Buon Natale a tutti!

Avvento: risposta

Per nostra natura intendiamo quella creata da Dio al principio e assunta, per essere redenta, dal Verbo. Nessuna traccia invece vi fu nel Salvatore di quelle malvagità che il seduttore portò nel mondo e che furono accolte dall'uomo sedotto. Volle addossarsi certo la nostra debolezza, ma non essere partecipe delle nostre colpe.
Assunse la condizione di schiavo, ma senza la contaminazione del peccato. Sublimò l'umanità, ma non sminuì la divinità. Il suo annientamento rese visibile l'invisibile e mortale il creatore e il Signore di tutte le cose. Ma il suo fu piuttosto un abbassarsi misericordioso verso la nostra miseria, che una perdita della sua potestà e del suo dominio. Fu creatore dell'uomo nella condizione divina e uomo nella condizione di schiavo. Questo fu l'unico e medesimo Salvatore.


Il Figlio di Dio fa dunque il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, senza lasciare la gloria del Padre. Entra in una condizione nuova, nasce in un modo nuovo. Entra in una condizione nuova: infatti invisibile in se stesso si rende visibile nella nostra natura; infinito, si lascia circoscrivere; esistente prima di tutti i tempi, comincia a vivere nel tempo; padrone e Signore dell'universo, nasconde la sua infinita maestà, prende la forma di servo; impassibile e immortale, in quanto Dio, non sdegna di farsi uomo passibile e soggetto alle leggi della morte.
Colui infatti che è vero Dio, è anche vero uomo. Non vi è nulla di fittizio in questa unità, perché sussistono e l'umiltà della natura umana, e la sublimità della natura divina.
Dio non subisce mutazione per la sua misericordia, così l'uomo non viene alterato per la dignità ricevuta. Ognuna delle nature opera in comunione con l'altra tutto ciò che le è proprio. Il Verbo opera ciò che spetta al Verbo, e l'umanità esegue ciò che è proprio della umanità. La prima di queste nature risplende per i miracoli che compie, l'altra soggiace agli oltraggi che subisce. E, come il Verbo non rinunzia a quella gloria che possiede in tutto uguale al Padre, così l'umanità non abbandona la natura propria della specie.
Non ci stancheremo di ripeterlo: L'unico e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente figlio dell'uomo. E' Dio, perché «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). E' uomo, perché: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14).

Dalle «Lettere» di san Leone Magno, papa (Lett. 28 a Flaviano, 3-4)

domenica 17 dicembre 2023

Avvento: voce

Giovanni Battista è la voce. Del Signore invece si dice: «In principio era il Verbo» (Gv 1, 1). Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio. Se alla voce togli la parola, che cosa resta? Dove non c'è senso intelligibile, ciò che rimane è semplicemente un vago suono. La voce senza parola colpisce l'udito, ma non edifica il cuore. Vediamo in proposito qual è il procedimento che si verifica nella sfera della comunicazione del pensiero. Quando penso ciò che devo dire, nel cuore fiorisce subito la parola. Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola, che si trova dentro di me. Le do suono e così, mediante la voce, parlo a te. Il suono della voce ti porta il contenuto intellettuale della parola e dopo averti rivelato il suo significato svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza peraltro essersi allontanata dal mio.  Non ti pare, dunque, che il suono stesso che è stato latore della parola ti dica: «Egli deve crescere e io invece diminuire»? (Gv 3, 30). Il suono della voce si è fatto sentire a servizio dell'intelligenza, e poi se n'è andato quasi dicendo: «Questa mia gioia si è compiuta» (Gv 3, 29). Teniamo ben salda la parola, non perdiamo la parola concepita nel cuore.

sant'Agostino di Ippona, Discorso 293

domenica 10 dicembre 2023

Avvento: regalo

Atteso delle genti, non saranno delusi tutti coloro che ti aspettano. Ti hanno atteso i nostri padri; tutti i giusti, dall'origine del mondo, hanno sperato in te e non sono stati confusi. Già, allorché fu ricevuta la tua misericordia nel cuore del tuo tempio, cori gioiosi fecero sentire le loro lodi e cantarono: Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Poi, riconoscendo nell'umiltà della carne la maestà divina, dissero: «Ecco, è il nostro Dio! Noi l'abbiamo atteso; egli ci salverà! È lui il Signore; noi l'abbiamo atteso con pazienza, esulteremo e ci rallegreremo nella sua salvezza!». Mentre altri si  affannano a cercare quaggiù la loro felicità e, senza attendere che si adempia il disegno del Signore, si precipitano per accaparrare il bottino che loro offre il mondo, l'uomo beato che ha posto la sua speranza nel Signore e che non ha fissato il suo sguardo sulle vanità e sulle ingannevoli follie si tiene alla larga dalle loro strade. E parlando a se stesso, si consola con queste parole: «Mia eredità è il Signore, ha detto la mia anima: ecco perché io l'aspetterò».
sant’Ilario di Poitiers, Discorso primo




domenica 3 dicembre 2023

Avvento: attesa

Noi annunziamo che Cristo verrà. Infatti non è unica la sua venuta, ma ve n'è una seconda, la quale sarà molto più gloriosa della precedente. La prima, infatti, ebbe il sigillo della sofferenza, l'altra porterà una corona di divina regalità. Si può affermare che quasi sempre nel nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice. Duplice è la generazione, una da Dio Padre, prima del tempo, e l'altra, la nascita umana, da una vergine nella pienezza dei tempi. Due sono anche le sue discese nella storia. Una prima volta è venuto in modo oscuro e silenzioso, come la pioggia sul vello. Una seconda volta verrà nel futuro in splendore e chiarezza davanti agli occhi di tutti. Nella sua prima venuta fu avvolto in fasce e posto in una stalla, nella seconda si vestirà di luce come di un manto. Nella prima accettò la croce senza rifiutare il disonore, nell'altra avanzerà scortato dalle schiere degli angeli e sarà pieno di gloria. Perciò non limitiamoci a meditare solo la prima venuta, ma viviamo in attesa della seconda.

san Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 15



mercoledì 7 giugno 2023

la Ferrari non fa pubblicità



Lc 16, 19-31

Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.

Questa parabola ci fa notare alcuni comportamenti molto insidiosi per la nostra fede di cristiani. Gesù ne presenta tre negli atteggiamenti di questo uomo ricco.

Il primo: non accorgersi dell’altro. Quest’uomo ricco non è cattivo, non è malvagio. Semplicemente non sa più vedere intorno a sé. Si sta disconnettendo dalla realtà. E come capita spesso in questi casi, atteggiamenti e comportamenti diventano autoreferenziali e abnormi. Che si voglia stare bene e vivere in modo agiato e sereno è una cosa che desideriamo tutti e che cerchiamo di realizzare per quanto ci è possibile. Ma il continuo confronto con il mondo in cui viviamo ci aiuta (e a volte ci costringe) a non assolutizzare le nostre aspirazioni e a non pensare solo a noi stessi. Accorgersi degli altri è un grande aiuto per noi.


Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.

Il secondo: dimenticarsi dell’eternità. Ovviamente la parabola è indirizzata a ebrei, quindi credenti. Quindi questa prospettiva va data per scontata. Ma ahimè anche da noi credenti l’orizzonte eterno può essere dimenticato o almeno passare in secondo piano. Il ricco della parabola non si ricorda più che nella prospettiva della fede  la nostra vita supera la morte ed è chiamata all’eternità, e che tutto quello che facciamo ha delle conseguenze che vanno ben oltre la morte. In questo esempio la giustizia divina rimette a posto quello che era stato squilibrato. Ma l’accento non è posto tanto sulla punizione quanto sul fatto che quest’uomo avrebbe potuto lui stesso equilibrare le cose nella sua vita e non l’ha fatto. E avrebbe potuto equilibrarle proprio con l’aiuto della prospettiva eterna (oltre che con la sensibilità personale e l’attenzione all’altro che ormai ha perso, come notavamo prima).

Gesù disse poi una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». Lc 12,16-21


E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il terzo: non ascoltare la parola di Dio. L’importanza della rivelazione viene qui sottolineata dal desiderio stesso dell’uomo di salvare almeno in suoi fratelli. Venga mandato qualcuno ad avvisarli. Ma l’avviso è già stato dato. Anche il ricco aveva a disposizione questo avviso. Poteva leggere, meditare e ascoltare e mettere in pratica la Parola di Dio ma non l’ha fatto.
È interessante notare come quest’ultimo aspetto della parabola richiami qualcosa di molto attuale: un certo alone che a volte ci circonda, fatto di aver già visto e sentito tutto, che mi sembra somigli molto alla ricchezza dell’uomo della parabola. Un benessere annoiato che non sa più interessarsi a nulla e che per essere svegliato deve essere colpito da qualcosa di forte, di potente, di strabiliante: ‘se qualcuno dei morti andrà da loro si ravvederanno’. La risposta di Abramo è lapidaria: ‘Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’. 
Se anche uno risorgesse dai morti, non direbbe nulla di diverso da quello che già hanno detto Mosè e i Profeti. Quello che conta è la rivelazione fatta da Dio, non il modo con cui questa rivelazione si presenta. Non è uno spot pubblicitario, che punta a stupire, colpire, abbagliare, e che deve colpire tanto più quanto meno importante è il prodotto. Un prodotto in sé eccezionale non ha bisogno di essere pubblicizzato. La Ferrari non fa pubblicità delle sue auto.

 


venerdì 19 maggio 2023

Talent



Mt 25, 14-30

Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.

Sentendo la parola talenti automaticamente ormai siamo portati a pensare alle doti e alle capacità di ciascuno, tanto che ormai anche nel linguaggio comune ‘talento’ proprio questo significa, e in televisione proliferano i vari talent show che hanno lo scopo di esibire le capacità delle persone che gareggiano.


Ma non sono tanto sicuro che fosse proprio questo il significato dato a Gesù in questa parabola. Innanzitutto il termine ‘talento’, nel testo, si riferisce a una somma di denaro. Una grande somma di denaro.

Il talento, come la mina, è una "moneta di conto", cioè un'unità monetaria che non esiste in realtà ma alla quale si fa riferimento per calcolare somme di grande quantità … Il talento attico, di cui parlano i Vangeli, si divideva in sessanta mine, ognuna delle quali valeva cento denari … si è calcolato che in quindici anni un lavoratore poteva guadagnare un talento in tutto... 

È vero che le parabole usano immagini simboliche per richiamare altre realtà, ma occorre sempre partire dal significato principale dell’immagine per coglierne quello simbolico nel modo giusto. E se ci riusciamo è bene dare alle immagini che Gesù usa il significato che vuole lui, non quello che ci vediamo noi, altrimenti si rischia di non capire.
L’uomo che affida i talenti ai suoi servi consegna loro non solo delle somme di denaro, ma ‘i suoi beni’. Un affidamento totale, non solo parziale. E, attenzione, questi beni non sono dei servi, sono suoi. Li affida a loro, ma rimangono suoi. 
In tutto sono otto talenti. Se un talento equivaleva a 15 anni di lavoro, equiparato a spanne ai prezzi di oggi e tenendoci bassi calcolando 1000 euro al mese di stipendio (per comodità di calcolo), 1000 euro x 12 mesi x 15 anni = 180000 euro fanno un talento. 8 talenti sono 1.440.000 euro. Al primo servo vengono consegnati 5 talenti, quindi 900.000 euro, al secondo 360.000, al terzo 180.000. Questo calcolo ci permette di correggere una prima impressione che si ha ascoltando superficialmente la parabola, e cioè che al povero terzo servo siano stati dati pochi miseri spiccioli. 180.000 euro non sono una piccola cifra certamente.
Il secondo particolare da notare è che il padrone dà i talenti ‘secondo le capacità di ciascuno’. Ma se è così, se i talenti sono dati secondo le capacità, allora non sono le capacità. Le capacità sono proprie dei servi, i talenti sono proprietà del padrone.

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.

Le capacità dei primi due servi vengono utilizzate per moltiplicare i talenti. In questo non c’è nessuna discriminazione tra loro (perché questo è il vero inghippo che immediatamente ci turba in questa parabola: che al terzo servo sia stata fatta un’ingiustizia), perché anche il terzo avrebbe potuto fare la stessa cosa. Come vedremo la risposta del padrone è identica per il primo che ha raddoppiato la cifra come per il secondo. Sarebbe stata la stessa anche per il terzo se avesse fatto altrettanto.

Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.

Ecco il collegamento con l’Avvento: il ritorno del padrone ‘dopo molto tempo’.

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Prendi parte alla gioia del tuo padrone. Come hai saputo prendere a cuore i suoi beni come fossero tuoi. Prendere parte, ecco la chiave per comprendere il comportamento dei primi due servi e quello, in negativo del terzo.


Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse.

‘Ecco ciò che è tuo’. Credo che questa sia una delle espressioni centrali utili per comprendere questa parabola. Certo che il talento è suo, è del padrone. Ma mentre gli altri due si sono presi a cuore in qualche modo le proprietà del padrone e le hanno sviluppate come fossero loro, mettendogli a disposizione le proprie capacità, il terzo servo ha tenuto per sé le proprie capacità e per il padrone il suo talento. Non ha voluto collegare le due cose. Non si è immischiato. Non ha voluto prendersi a cuore i beni del padrone che gli erano stati affidati.
Mi sembra di sentir risuonare le parole del figlio maggiore della parabola del figliol prodigo: ‘io ti servo da tanti anni e non mi hai mai dato un capretto…’ e la risposta del padre ‘figlio, tutto quello che è mio è tuo’.
I primi due servi si sono comportati come figli. Il terzo ha preferito rimanere servo.
E il motivo? ‘Ho avuto paura’. Un figlio non ha (normalmente) paura del padre. Un servo invece può averla. E da cosa è generata questa paura? ‘So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso’. Questa è l’immagine che il servo ha del padrone. E in base a questa immagine che si è creata agisce di conseguenza. Ma un padrone che affida al proprio servo 180.000 euro non corrisponde molto a questa idea di diffidenza e di paura. Ma quest’uomo non se ne rende conto, servo ancora più che del padrone della propria idea che ha di lui.
Ci sarebbe stata ancora una possibilità per questo servo: pur nella distorsione dell’immagine che ha del padrone, avrebbe almeno potuto, se non voleva utilizzare le proprie capacità per lui come hanno fatto gli altri, sfruttare le capacità di altri. Mettere il denaro in banca non gli sarebbe costato né sforzo né impegno e avrebbe ottenuto come risultato degli interessi (evidentemente era ancora il tempo in cui mettere i soldi in banca rendeva qualcosa). Ma forse è proprio questa la maggiore aberrazione ottenuta dal suo atteggiamento: non solo ha paura del padrone e diffida di lui, non solo non vuole faticare e mettere in gioco per lui il proprio tempo e le proprie capacità, non vuole nemmeno che il padrone ne abbia dei vantaggi. 
Da qui si può scorgere in lontananza un’altra parabola, quella in cui non solo i servi non vogliono rendere al padrone ciò che è suo, ma finiscono per ucciderlo per avere tutto loro.

Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

Ancora una volta il richiamo alle tenebre eterne, ma mentre una lettura superficiale ci portava sull’orlo del risentimento verso il padrone per questo poveretto che veniva discriminato ingiustamente e pure punito, ora si comincia a cogliere più in profondità di quanto possano dipendere da noi le conseguenze delle nostre immagini sbagliate di Dio.

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l’ordine di costruire la villa più bella che sarebbe riuscito a immaginare, secondo un progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gli gradiva e non badare a spese. I lavori cominciarono, ma approfittando di questa cieca fiducia, il capomastro pensò di usare materiali scadenti, di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata. Quando la villa fu terminata, durante la festa di inaugurazione, il capomastro consegnò al presidente della società la chiave di entrata. Il presidente gliela restituì e disse, stringendogli la mano: “Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza”