giovedì 29 ottobre 2015

Chiamalo!



Mc 10, 46-52

Mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.

Chi è cieco ha certo difficoltà a individuare una strada da seguire. Certamente oggi può trovare maggiori aiuti rispetto al tempo di Gesù, ma credo che qui non si tratti solo di individuare supporti per migliorare la vita dei fisicamente non vedenti. Nei protagonisti del Vangelo si può sempre intravvedere qualcosa che si riferisce a ciascuno di noi, soprattutto in senso profondo e spirituale. D’altra parte l’altro protagonista di questi incontri è Gesù, in cui noi cristiani vediamo la presenza stessa di Dio, e quando c’è di mezzo Dio allora ogni incontro diventa indicazione per cogliere aspetti interessanti per il nostro incontro con lui. In altre parole possiamo vedere in Bartimeo ciascuno di noi. Bartimeo non può seguire Gesù, almeno finchè non può in qualche modo identificare la sua presenza. In questo caso il suo ‘sentire’ che Gesù sta passando gli permettere almeno di individuarlo, di sapere che è nei paraggi. Ma solo dopo che potrà vederlo potrà anche seguirlo.
Ma stavolta non vorrei fermarmi su Bartimeo, perché ci sono anche altri personaggi nell’episodio. E non sono, in questo caso, personaggi di contorno, come capita invece tutte le volte che viene citata genericamente ‘la folla’. Nel nostro caso discepoli e folla, o quantomeno alcuni di loro, sono chiamati in causa prima da Bartimeo e poi da Gesù.

Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

Il coinvolgimento degli spettatori inizia con l’effetto che ha su di loro l’appello di Bartimeo. E’ vero che invoca Gesù, ma le sue grida raggiungono tutti, seppur in modo negativo. Bartimeo è fastidioso, è invadente, è disturbante. Proviamo a coinvolgerci subito in prima persona, mettendoci al posto dei presenti (così come prima potevamo identificarci con il cieco). 


Certamente nella nostra vita ci capita di imbatterci in persone fastidiose e disturbanti. Le occasioni sono innumerevoli: persone antipatiche, persone verso cui proviamo diffidenza o che ci provocano reazioni di disgusto e repulsione. Dal Rom al semaforo al mendicante che ci chiede insistentemente qualcosa. E’ vero che Bartimeo, pur fastidioso per i presenti, lancia un appello che è anche una invocazione a Dio, ma anche quello è un modo di mendicare. E in fondo tutti mendichiamo qualcosa, dagli altri o da Dio: attenzione, rispetto, affetto e considerazione. O perlomeno io mi accorgo di farlo spesso.
Ma dicevo che non volevo identificarmi con il cieco. Proviamo allora a metterci nei panni degli altri, degli infastiditi. Questa reazione di fastidio, di presa di distanza, di diffidenza è spesso istintiva (anche se poi cerchiamo di correggerla o almeno mascherarla un po’), e molto comprensibile, umana, logica se vogliamo. Ma è cristiana? Se reagiamo infastiditi e in questo non facciamo altro che reagire come chiunque altro, il nostro essere cristiani dove sta? Se facciamo le stesse cose di chiunque (a volte anche meno) cosa ci contraddistingue? Mi risuonano le parole di Gesù in un altro passo evangelico:

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”. Lc 6, 32-38

E guarda caso subito dopo Gesù continua così:

“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt'e due in una buca? Lc 6, 39

Cosa allora fa la differenza tra un cristiano e un non cristiano?


Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!».

Ecco la differenza. Non nel carattere o nella sensibilità (non sempre chi si dichiara cristiano brilla per queste caratteristiche), non nel livello culturale (che in questo non ha alcuna rilevanza), non nella coerenza con il proprio credo (che spesso latita, o almeno mi accorgo che scarseggia in me). La differenza la fa Cristo, non noi. Noi semmai cerchiamo di seguire le sue indicazioni. E ancora di più, ora lo vedremo, l’indicazione che Cristo dà, che se viene messa in atto cambia tutta la situazione. Di suo il cristiano non è né meglio né peggio di chiunque altro, ma nel momento in cui agisce su indicazione di Cristo passa su un altro piano, diventa il realizzatore dell’azione di Dio.

‘Chiamatelo!’.

L’antipatia rimane, la diffidenza resta tale e quale, il disagio o il disgusto provati in un primo momento non se ne vanno, ma ora c’è qualcosa che spinge, che mette in moto, che aiuta a superare queste percezioni. Ora so cosa devo fare.

Chiamalo!

Avvicinalo, vagli incontro, telefonagli, fai tu il primo passo (anche se a ben pensarci in realtà il primo passo l’aveva già fatto l’altro).

Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

I diffidenti, i riluttanti, diventano persino gentili. Gesù avrebbe potuto benissimo bypassare i presenti e comunicare direttamente con Bartimeo, che del resto era lui che aveva interpellato. Invece in questo caso vuole coinvolgere tutti i presenti, renderli partecipi, portarli a diventare un po’ come lui. E come si fa a diventare come lui? Come si fa a diventare Cristi, Cristiani? Si fa quello che lui dice. Come aveva indicato la Madre tempo prima:

La madre dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”. Gv 2, 5

Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Ora si realizza il miracolo per Bartimeo, ma un altro miracolo ben più grande è già avvenuto. Bartimeo è guarito, ma è solo uno. Tutti gli altri ciechi continuano a essere ciechi. Ma tra i presenti tutti sono stati risvegliati da Gesù. Immagino che non tutti si saranno precipitati dal cieco per chiamarlo, come aveva ordinato Gesù, ma l’evangelista non fa nessuna distinzione, non individua qualcuno in particolare che si è mosso come indicato da Gesù: sono molti che seguono Gesù, molti che rimproverano Bartimeo, e anche il plurale usato da Gesù si rivolge a tutti i presenti, così come è plurale il ‘chiamarono’ usato da Marco per descrivere il movimento che si attua verso il cieco. Uno solo viene guarito dalla propria cecità. Molti sono guariti dalla propria diffidenza.



giovedì 22 ottobre 2015

Noi e gli altri



Mc 10, 35-45

Si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo,

Giacomo e Giovanni sono una delle due coppie di fratelli che Gesù chiama come Apostoli. Gli altri due sono Andrea e Pietro. Ma a differenza di questi, spesso Giacomo e Giovanni agiscono o almeno vengono presentati spesso in coppia, e altrettanto spesso riferiti al loro padre Zebedeo. Di Zebedeo non si dice nulla nei vangeli se non che fosse il padre dei due fratelli, ma il fatto che vengano indicati spesso come ‘figli di Zebedeo’ potrebbe essere indizio che Zebedeo fosse per qualche motivo abbastanza noto.

Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Gv 21, 2

Grande stupore aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Lc 5, 9-10

Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì.  Mc 3, 16-19

Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedèo, cominciò a provare tristezza e angoscia. Mt 26, 36-37

Faccio questo accenno alla famiglia dei due fratelli, perché mi sembra che in più occasioni questa famiglia sia stata presente nelle vicende della vita di Gesù. L’evangelista Matteo mette sulla bocca della madre di Giacomo e Giovanni la richiesta che nel nostro testo viene presentata direttamente dai due fratelli (Mt 20, 20-23). E la madre di Giacomo e Giovanni è presente anche sul Golgota:

C'erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo. Mt 20, 55-56

Quindi si tratta di una famiglia che ha una certa importanza nel gruppo di persone che ruota intorno a Gesù. Questa rilevanza mi ha fatto venire in mente un meccanismo che spesso si attiva in gruppi ristretti e molto definiti: considerarsi in qualche modo migliori e superiori agli ‘altri’. Uno dei due fratelli è protagonista di un episodio significativo in questa ottica:

Giovanni disse a Gesù: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. Ma Gesù disse: “Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi. Mc 10, 38-40


Capita spesso, e occorre fare attenzione. La contrapposizione ‘noi e gli altri’ può diventare pericolosa. Può generare gruppi chiusi, che in qualche modo sfruttano a proprio vantaggio la propria identità e il proprio potere. I nostri due fratelli stessi, pur facendo parte del gruppo degli Apostoli, non ne sono immuni:

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme e mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui. Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Ma Gesù si voltò e li rimproverò. E si avviarono verso un altro villaggio. Lc 9, 51-56

Vediamo come Gesù smonta questi atteggiamenti:

«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Gesù non li manda a quel paese come ha fatto nel caso del villaggio dei Samaritani. La richiesta dei due è alquanto presuntuosa, ma Gesù la coglie come occasione per chiarire alcune cose anche con gli altri dieci, come vedremo. Ma per prima cosa risponde ai due:

Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete.

La risposta di Gesù è molto chiara. Questi due vogliono far valere la loro posizione, ma non è certo questo l’atteggiamento che sta proponendo Gesù. Che ora va un po’ più in profondità, avendo a che fare con gli Apostoli, coloro che dovranno continuare la sua opera. Per ora sono ancora molto lontani dall’aver colto il significato della loro scelta, ma dovranno imparare per non rischiare di atteggiarsi nel modo sbagliato.

Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?».

La domanda di Gesù è un po’ misteriosa. Credo che Gesù voglia cominciare a far capire loro che lui sta per fare qualcosa che loro non hanno ancora colto. Da parte loro credo che, vista anche la risposta che danno, i due fratelli non abbiano capito nulla di questa domanda. Eppure rispondono:

Gli risposero: «Lo possiamo».

Molto presuntuosi, Tanto più che non credo abbiano capito di cosa lui stia parlando. Il calice e il battesimo di cui Gesù parla sono la sua passione e morte.

E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.

La cosa curiosa è che Gesù, invece di evidenziare la loro incomprensione (e sfrontatezza), rivela loro che davvero saranno capaci di condividere la sua passione (entrambi chiamati nell’agonia del Getsemani, Giovanni che accompagnerà la madre di Gesù fin sotto la croce, Giacomo che sarà il primo degli Apostoli ad essere ucciso), ma sa che dovranno ancora fare molta strada per comprenderlo. E soprattutto dovranno cambiare completamente la loro visione delle cose.


Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

I due vengono così zittiti, ma le parole di Gesù hanno anche un altro scopo: quello di cominciare a rivelare loro qualcosa che capiranno molto tempo dopo. Quando vedranno Gesù inchiodato alla croce insieme ad altri due, un alla destra e uno alla sinistra, allora capiranno cosa intendeva Gesù per ‘gloria’. Qualcosa di completamente diverso da quello che ora loro intendono. E credo che sotto le tre croci i due avranno pensato ‘ci è andata bene!’.

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.

Non so se l’indignazione degli altri dieci fosse generata dal fatto che loro avevano capito tutto quello che Gesù stava dicendo, oppure se fosse semplicemente una reazione alla presunzione dei due fratelli. Ma non importa, Gesù coglie l’occasione per indicare chiaramente il modo in cui lui intende il primato. Qualcosa di diametralmente opposto alla modalità umana che tende al dominio. Gesù invece tende al servizio, fino al dare la vita. E’ curioso notare che Gesù non considera disdicevole in sé l’ambizione al primato e alla grandezza. Ma dà a questi un significato opposto a quello umano: volete diventare grandi? Volete essere primi? Va benissimo, ma diventatelo servendo e non opprimendo.

Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Lui sarà il modello da seguire. Per ora i dodici non sono ancora in grado di capire quel ‘dare la vita’ di cui parla Gesù. Alla fine capiranno e nonostante i caratteri personali a volte li ostacoleranno, saranno davvero tutti (tranne uno) capaci di bere il calice di Gesù. Sarà interessante notare che l’unico che non ci riuscirà, Giuda, non solo non sarà capace di condividere il sacrificio di Gesù, ma la sua incapacità lo porterà a causarlo.



giovedì 15 ottobre 2015

Eredità



Mc 10, 17-27

Mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».

Cosa potrei fare se volessi in qualche modo entrare in possesso di un’eredità?
Una prima cosa che mi viene in mente è, dopo aver individuato la persona di cui vorrei diventare erede (che sia ovviamente molto, molto ricca), fare qualcosa di talmente impressionante ai suoi occhi da farla sentire in debito immenso con me e spingerla a nominarmi suo erede. Che so, salvargli la vita.
Un’altra cosa che potrei fare è abbindolarla, raggirarla e ingannarla così bene (anche senza aver fatto niente di speciale) da entrare nelle sue grazie e indurla a nominarmi erede universale.
Una terza cosa è riuscire falsificare il suo testamento.
Ci sarebbe un altro modo per ereditare, molto meno laborioso e molto più semplice, ma per adesso lasciamolo da parte, e proviamo ad applicare questi metodi a Dio. In fondo l’uomo che corre da Gesù è proprio questo che gli chiede: “cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. E certo la vita eterna è una cosa che si può ottenere solo da Dio.
Primo metodo: impressionare Dio. Fare qualcosa per lui di talmente grande da renderlo debitore nei miei confronti. Direi impossibile.
Secondo metodo: ingannarlo. Impossibile anche questo, oltre che non particolarmente furbo.
Terzo metodo: falsificare il testamento. Vedremo più avanti che questa è la cosa più improbabile di tutte.
Vediamo come risponde Gesù a questa domanda.

Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.

Per prima cosa Gesù lo mette di fronte a un chiarimento. Definire ‘buono’ qualcuno può essere frutto di una convinzione personale (penso veramente che quella persona sia buona) ma anche un tentativo di ruffianamento (la chiamo così per ottenere la sua benevolenza). Gesù presenta subito a quest’uomo un dato di fatto: solo Dio è buono, quindi se lo chiama buono significa che lo identifica con Dio (altrimenti sarebbe un ruffiano: secondo metodo). Bene, se lo identifica veramente con Dio, allora deve mettere in atto il primo metodo: stupirlo, impressionarlo, renderlo suo debitore. Quindi…

 
Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».

La Legge di Dio è racchiusa, per gli ebrei osservanti come certamente è quest’uomo, nel Decalogo. Se lui si rivolge a Gesù come a Dio, allora la prima cosa che deve fare è osservarne scrupolosamente la sua Legge. Ma questo non basta per renderlo debitore nei nostri confronti. Per quanto impegnativo non è che il minimo sindacale:

quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Lc 17, 10

Sul significato di quel termine ‘inutili’ ci sarebbero molte cose interessanti da dire, ma proseguiamo…

Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò

Gesù apprezza molto lo sforzo di quest’uomo. E’ l’unica persona in tutto il vangelo di cui si dica che è stato amato da Gesù. Ma la richiesta che fa è enorme: nientemeno che la vita eterna. E l’osservanza dei comandamenti è semplicemente fare il proprio dovere. Ci vuole altro per meritare la vita eterna Quindi…

e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

Se vuoi tutto (la vita eterna) devi mettere in gioco tutto (la tua vita). La richiesta è proporzionata alla domanda. Anzi, a dire il vero non è neppure così: la vita umana, mortale e limitata, anche se offerta completamente a Dio, non sarà mai proporzionata alla vita eterna. Quindi Gesù è ancora assai generoso.
D’altra parte se qualcuno venisse a chiedermi cosa deve fare per diventare mio erede (ammesso che qualcuno possa essere così scriteriato) la prima cosa che mi verrebbe in mente sarebbe quella di mettergli delle condizioni sempre più esigenti per vedere fino a che punto andrebbe avanti. Sarebbe molto divertente. Gesù fa un po’ la stessa cosa…

Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

Chiede la vita eterna e non è disposto a dare i suoi beni in cambio. D’altra parte lui la vita eterna la voleva ereditare, mica comprare. Botte piena e moglie ubriaca,

Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».

Se già è difficile, se non impossibile, aver così tanto da offrire da poter pretendere in cambio la vita eterna, tanto più se non si vuole dare in cambio niente di ciò che si ha.


Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?».

Un momento. Fermiamo tutto e ricominciamo da capo. Quest’uomo chiede a Gesù cosa deve fare per ereditare la vita eterna. Se per ereditare bisogna fare qualcosa, e se l’obiettivo è la vita eterna, allora Gesù non fa altro che rispondere coerentemente alla domanda. Con il risultato di proporre condizioni impossibili. E’ impossibile fare qualcosa per ereditare la vita eterna.
Gesù è molto serio quando risponde a questa domanda, ma credo che nello stesso tempo stia giocando un po’ con quest’uomo e con i suoi discepoli. D’altra parte rispondere alla domanda così com’è formulata non può proprio che portare alle conseguenze presentate da Gesù.

Ma la domanda è sbagliata.

Nulla di quanto possiamo fare può farci ottenere la vita eterna. Impossibile (infatti è la conclusione a cui arrivano i discepoli: ‘chi può essere salvato?’)

Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

Dicevo prima che in realtà c’è un modo per ereditare che non richiede sforzi, semplice e sicuro: essere figli. Io non ho bisogno di fare nulla per ereditare dai miei genitori. Così non c’è bisogno di fare nulla per ereditare la vita eterna. Basta rendersi conto di essere figli di Dio, quindi suoi eredi

Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo. Rm 8, 17

Anche Gesù, ad un certo punto, si rivolge ai discepoli, nel nostro episodio, con questo appellativo, che è la chiave per comprendere tutto il testo: ‘Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!’. Quanto è difficile per chi non è figlio ereditare dal Padre!
Ma voi siete figli.
Dio ha fatto una cosa incredibile: ci ha adottati per renderci figli. Anzi, ci ha identificati con il Figlio, ci ha resi parte di lui, suo corpo, consanguinei e concorporei  attraverso la sua incarnazione e attraverso i sacramenti. ecco perché ha mandato il Figlio e non è venuto lui. Perché solo nel Figlio saremmo potuti diventare figli.
Alla fine della parabola del figlio (tanto per restare in tema) prodigo il secondo fratello (quello che si era sempre atteggiato a servo: ‘io ti servo da tanti anni…’ a differenza dell’altro che per quanto scapestrato e ribelle non aveva mai smesso di considerarsi figlio) si era sentito dire:

‘…figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo’. Lc 15, 31

D’altra parte, se consideriamo la nostra realtà vitale, mica facciamo (spero) le cose che facciamo verso i nostri genitori solo per ottenere la loro eredità. Le facciamo semplicemente perché vogliamo loro bene. Certo, ci sono anche dei figli (come anche dei genitori) snaturati e sciagurati, ma sono appunto aberrazioni. Ecco, ciò che facciamo verso Dio dovrebbe essere anche fatto così: perché gli vogliamo bene, non certo per ottenerne in cambio qualcosa.

C’era un terzo metodo fraudolento per ottenere l’eredità, che non abbiamo ancora riferito al rapporto con Dio: quello di falsificare il testamento. Ho detto che questo è il metodo peggiore. Il primo motivo è che il Testamento (anzi, nel nostro caso i testamenti sono due, il Testamento Vecchio e il Testamento Nuovo) ha troppi testimoni che lo proteggono. Saremmo sgamati subito. Checchè se ne dica, la Bibbia è uno dei libri il cui testo è più sicuro e controllato. L’Antico Testamento lo abbiamo in comune con i nostri fratelli maggiori Ebrei, e loro sono sempre stati assai attenti a che nessuno cambiasse o correggesse a proprio uso e consumo il loro testo biblico. Il Nuovo Testamento è stato scritto in un tempo talmente vicino ai fatti raccontati che ha avuto sempre migliaia di occhi puntati su di lui, e spesso occhi ostili, pronti a strillare nel caso fossero stati distorti o alterati i fatti che erano stati sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici e degli avversari.
Ma c’è un altro motivo per cui la falsificazione del Testamento in questo caso sarebbe la soluzione peggiore: perché è il testo che ci rivela che i figli, quindi gli eredi, siamo noi.

…voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, Ef 3, 19

Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha … predestinati a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo
…In lui siamo stati fatti anche eredi
…In lui anche voi … avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo 
che era stato promesso,
il quale è caparra della nostra eredità. Ef 1, 3-14

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l’ordine di costruire la villa più bella che sarebbe riuscito a immaginare, secondo un progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gli gradiva e non badare a spese. I lavori cominciarono, ma approfittando di questa cieca fiducia, il capomastro pensò di usare materiali scadenti, di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata. Quando la villa fu terminata, durante la festa di inaugurazione, il capomastro consegnò al presidente della società la chiave di entrata. Il presidente gliela restituì e disse, stringendogli la mano: “Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza”