domenica 27 novembre 2011

avvento

Se tu squarciassi i cieli e scendessi! (Is 63, 19)

Sù, misero mortale, fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un po' i tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui. Entra nell'intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, dì ora con tutto te stesso, dì ora a Dio: Cerco il tuo volto. «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26, 8).
Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Ma tu certo abiti in una luce inaccessibile. E dov'è la luce inaccessibile, o come mi accosterò a essa? Chi mi condurrà, chi mi guiderà a essa si che in essa io possa vederti? Inoltre con quali segni, con quale volto ti cercherò? O Signore Dio mio, mai io ti vidi, non conosco il tuo volto. 
Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da te, ma che a te appartiene? Che cosa farà il tuo servo tormentato dall'amore per te e gettato lontano dal tuo volto? Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto.


Signore, tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni, e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato. Ma tu, Signore, fino a quando ti dimenticherai di noi, fino a quando distoglierai da noi il tuo sguardo? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai la tua faccia? Quando ti restituirai a noi? Guarda, Signore, esaudisci, illuminaci, mostrati a noi. Ridonati a noi perché ne abbiamo bene: senza di te stiamo male. Abbi pietà delle nostre fatiche, dei nostri sforzi verso di te: non valiamo nulla senza te.
Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoli e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti.

sant'Anselmo, vescovo - Proslogion

mercoledì 16 novembre 2011

talenti


Mt 25, 14-30

un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
La parola ‘talento’ è passata nell’uso comune per indicare le doti o capacità di una persona. Il talent scout è colui che va a cercare persone con doti particolari per lanciarle nel mondo dello spettacolo o della televisione. In una lettura superficiale, i talenti di questa parabola sono stati appunto identificati con le doti personali, da cui l’interpretazione moralistica e un po’ infantile: Dio ci ha dato dei talenti, delle doti, e dobbiamo svilupparli, non nasconderli. Come sempre però credo che Gesù volesse comunicare e rivelare qualcosa di più. Un primo indizio di questo è il termine ‘talento’ che Gesù usa.
Il talento, come la mina, è una «moneta di conto», cioè un’unità monetaria che non esiste in realtà ma alla quale si fa riferimento per calcolare somme di grande quantità. Fra l’altro essi hanno dato il nome a due parabole specifiche, fra loro simili. Il talento attico, di cui parlano i Vangeli, si divideva in sessanta mine, ognuna delle quali valeva cento denari … si è calcolato che in quindici anni un lavoratore poteva guadagnare un talento in tutto... 
(Cesare Pasini. Le monete di Dio)
Per semplificare e per dare l’idea di come il talento indicasse una cifra altissima, enorme, potremmo dire che un talento corrisponde a ‘un milione’ (come quello del Signor Bonaventura, che i diversamente giovani come me ricorderanno).


Questa enorme cifra sono tutte le risorse che abbiamo a disposizione (quindi non solo i talenti personali, ma anche il tempo, la salute, l’intelligenza, le risorse energetiche, la vita stessa…). Come già ho detto in altre occasioni, nessuna di queste cose può essere considerata come veramente nostra. Sono realtà che ci siamo trovati, e ciascuno ne ha una quantità diversa rispetto agli altri. Sono il capitale iniziale che ci è stato affidato. Un capitale enorme. Una enorme responsabilità. Una enorme fiducia da parte del padrone nei confronti dei suoi servi.

colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Come accade spesso nelle parabole, i diversi protagonisti riassumono i diversi atteggiamenti, con i quali possiamo confrontarci per chiederci a quale somigliamo di più.

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”.
La stessa cosa fa colui che aveva ricevuto due talenti. Hanno considerato questi talenti come cosa propria, tanto che si sono impegnati per svilupparli, si sono dati da fare. Ma nello stesso tempo sono consapevoli che non sono cosa loro. Entrambi dal padrone si sentono dire le stesse parole:

“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco,
Il secondo indizio che rivela che Gesù sta parlando di qualcosa di più grande delle sole doti personali è questa parola: poco. Poco? Cinque/due talenti sono poco? Neppure un talento solo è poco. Se tutte le risorse che abbiamo a disposizione sono ‘poco’ cosa sarà il ‘molto’?

ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Il padrone coinvolge il servo nella sua gioia. Questo è il molto. È la vita eterna, la vita-con-Dio, la cui porta è stata aperta da Gesù e che ci è stata ricordata dalla parabola delle dieci ragazze. È la vita-con-lui intesa come matrimonio vero e proprio, in cui lo sposo e la sposa diventano ‘padroni’ insieme di tutto.
(Isacco, abate del monastero della Stella)
Una sorta di eterna comunione dei beni. Questo è l’orizzonte di Gesù, che a volte noi, anche noi cristiani, dimentichiamo per limitarci a considerare la sola vita attuale.
Terzo indizio: ‘Sei stato fedele’, sono le parole che Gesù mette in bocca al padrone. Il termine ‘fedele’ è uno dei termini usati per indicare chi segue una dottrina o un comportamento religioso. Il termine richiama l’obbedienza, sottolineata dall’uso in questa parabola degli altri due termini, ‘padrone’ e ‘servo’. Ma nel modo di vedere le cose di Gesù indica anche un atteggiamento di fiducia. I primi due servi hanno avuto fiducia che il loro padrone li avrebbe ricompensati della loro dedizione nell’usare bene cose di cui non avevano la proprietà, nell’usarle al meglio, come fossero loro. In realtà il padrone fa molto di più, non solo li ricompensa, ma li fa entrare ‘nella sua gioia’. Nella sua famiglia, nella sua casa.

voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, Ef 2, 19

Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. Lc 12, 35-37

Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. Gv 15, 15

Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.


Il terzo servo è invece uno che non è fedele, nel senso che non si fida. Ha paura del padrone. Non usa neppure i talenti per farsi i propri affari, perché ha paura della punizione. E non li usa per arricchire il padrone; perché dovrebbe? Mica li sente come suoi. Quindi quei talenti non servono a nulla, né a lui, né al padrone. Infatti vengono nascosti.

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse.
La paura genera diffidenza. Credo che, anche se non ci piace pensarlo, in questo terzo servo sia possibile intravedere un po’ di noi. Qual è il mio rapporto con Dio? Mi fido di lui o ne ho paura? Dagli atteggiamenti e dai comportamenti si vede qual è il mio atteggiamento, così come si vede nei tre servi. Dio è mio amico o mio nemico? Credo che a volte lo consideriamo, se non nemico, almeno un concorrente. Quindi non ci fidiamo di lui. Se facciamo le cose per lui è più per timore che per amore. Le facciamo per non venir puniti, quindi ci limitiamo al minimo indispensabile, e appena possibile ci facciamo le nostre cose. Verso queste sì che ci impegniamo, verso le sue molto meno. Perché non le consideriamo nostre.

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l’ordine di costruire la villa più bella che sarebbe riuscito a immaginare, secondo un progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gli gradiva e non badare a spese. I lavori cominciarono, ma approfittando di questa cieca fiducia, il capomastro pensò di usare materiali scadenti, di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata. Quando la villa fu terminata, durante la festa di inaugurazione, il capomastro consegnò al presidente della società la chiave di entrata. Il presidente gliela restituì e disse, stringendogli la mano: “Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza”



venerdì 11 novembre 2011

stoltezza e saggezza



Prima premessa:
la settimana scorsa abbiamo celebrato la festa di tutti i Santi, che tra le altre cose ci ha ricordato ancora una volta che noi viviamo nella prospettiva della resurrezione e della vita eterna. Ci fa sempre bene ricordarlo, non solo perché apre un orizzonte molto più vasto alla nostra esistenza, ma anche perché ci aiuta a dare un senso preciso alla nostra vita presente. La resurrezione non è solo una cosa di cui mi occuperò, eventualmente, dopo la mia morte. Il modo della resurrezione dipende (e ce lo ha proprio ricordato la festa dei Santi) dal mio modo di vivere oggi.

Seconda premessa:
nel commento al testo degli invitati alle nozze avevo citato questo brano delle dieci ragazze come uno degli esempi in cui compariva la figura dello sposo senza la sposa. Laggiù la sposa la si intravedeva negli invitati, qui la vedremo nelle dieci ragazze che attendono lo sposo.

Mettendo insieme le due premesse mi verrebbe da dire: ma guarda, la vita terrena che prepara la vita eterna (che inizia con il momento della resurrezione) ricorda il fidanzamento che prepara la vita insieme (che inizia con il momento del matrimonio). Sarà per questo che san Paolo scrive questa cosa collegando due cose che apparentemente non centrano nulla?

Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Ef, 5, 31-32

dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo.


Nella Bibbia il numero 10, insieme al 1000, a volte rappresenta un gruppo definito di persone, e per estensione il popolo stesso di Israele. Bisogna però fare molta attenzione nell’interpretare i numeri, perché i criteri stessi degli scrittori dei testi biblici sono diversi, e a volte un numero significa semplicemente un numero, mentre altre volte ha un significato preciso, che però non sempre siamo in grado di chiarire. Inoltre ai numeri si può far dire di tutto.


Tornando seri, Gesù sta raccontando una parabola, quindi possiamo supporre che il numero che usa abbia un significato preciso, che rimanda quindi al ‘gruppo di persone’, quindi in senso lato alla comunità dei credenti a cui si rivolge. Per semplificare, anche se è rischioso, facciamo che questa ‘comunità dei credenti’ sia identificata con la Chiesa Cattolica, perché in realtà non esiste una ‘comunità’ che raccolga tutti i credenti di tutti i tipi.
Dell’assenza della sposa ho già accennato.

Cinque di esse erano stolte e cinque sagge;

Dei cattolici, metà sono stolti, e metà saggi. Interessante. Tornando un attimo al numero dieci, se le nostre due mani con le loro dieci dita collaborano riescono a svolgere bene il loro compito. In caso contrario si intralciano, si ostacolano, e l’opera non viene bene. Come in questo caso. La ‘sposa’ non è perfetta. La Chiesa non è perfetta. E la cosa interessante è che l’unico difetto che viene evidenziato tra i tanti possibili, è un difetto che può essere corretto. La stoltezza non è infatti come un limite intellettuale o fisico, che devi tenerti così com’è. Non è che metà della Chiesa è fatta di imbecilli. Ma forse è fatta di non-saggi, cioè di persone che potrebbero fare le bene le cose, ma non le fanno. Potrebbero tener conto di alcuni aspetti rivelati e insegnati da Dio, ma li snobbano. Un po’ come gli invitati dell’altra parabola.

le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.

In cosa consiste la saggezza? Nell’intelligenza? Nelle doti personali? Nella simpatia? Nel titolo di studio? Pare di no. Ciò che distingue le une dalle altre è il saper pensare al futuro. Ma non solo nel senso di essere previdenti. Mi sembra ci sia di più, qui. Qual è il futuro di queste ragazze-sposa? È l’incontro con lo sposo, quindi il matrimonio, che non è solo lo sposalizio, ma tutta la vita insieme. In altre parole, mi sembra che Gesù voglia dire che è essenziale per noi non solo pensare al presente, ma vivere il presente come fidanzamento, come preparazione al futuro definitivo del nostro matrimonio con lui attraverso la resurrezione.
La stoltezza quindi è non dare importanza all’arrivo dello sposo, al pensare solo all’adesso, a se stessi, e non dare importanza a lui e alla vita eterna con lui. Qualcosa di simile a quello che era successo agli invitati alle nozze. Non solo avevano rifiutato (cosa che poteva essere una semplice scortesia), ma avevano sostituito lo sposo con i loro affari, dichiarando così lo sposo non importante per loro. Se non mi interessa lo sposo allora viene meno tutta la mia identità di sposa. Non sono più quello che dovrei essere. Potrei essere tanto ma mi accontento di essere poco. Non sono capace di guardare la mia vita in tutta la sua estensione, che è l’estensione che ci ha aperto Cristo con la resurrezione.

Il Padre ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli. Col 1, 13-20

Inoltre, come vedremo dal finale, se lo sposo non mi interessa mi metto con le mie mani fuori dalla sua casa (che in quanto sposa è anche casa mia). Passando dal simbolo alla realtà che mi pare che Gesù voglia farci notare, se il matrimonio è la resurrezione e la vita insieme è la vita eterna, rifiutando il matrimonio rifiuto anche la vita insieme (non vi conosco).
 
Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.

Lo sposo tarda. Le ragazze dormono. Non tutto fila liscio. Lo sposo stesso non rispetta gli orari, non risponde alle nostre aspettative. Le ragazze (tutte, anche le sagge) non sono sempre attente e pronte. Si addormentano. Quante volte è successo anche a me di ‘addormentarmi’ spiritualmente, di perdere attenzione, di quasi dimenticarmi dello scopo della mia vita…

A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”.

Ecco il grande momento. In greco, la lingua dei vangeli, ci sono due termini per indicare il Tempo: chrònos e kairòs. Il Chronos è il tempo che scorre. Il Kairòs è il grande momento che dà senso a tutto il mio tempo.
Il Chronos è il tempo da riempire con qualcosa. È il tempo che dura un po’ e poi finisce.

La nostra vita è breve e triste;
non c'è rimedio, quando l'uomo muore,
e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi.
Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati.
E' un fumo il soffio delle nostre narici,
il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore.
Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere
e lo spirito si dissiperà come aria leggera.
Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo
e nessuno si ricorderà delle nostre opere.
La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia
scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore.
La nostra esistenza è il passare di un'ombra
e non c'è ritorno alla nostra morte,
poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro.
Su, godiamoci i beni presenti,
facciamo uso delle creature con ardore giovanile!
Inebriamoci di vino squisito e di profumi,
non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,
coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano;
nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza.
Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia
perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Sap 2, 1-9


Il Kairòs è il senso del tempo, che sa riconoscere il momento importante, per cui vale la pena vivere, il momento da non lasciarsi scappare.

Come ti chiami, ragazzo che non vuole andare mai a scuola?
Mi chiamano Lupetto
Piccolo lupo del bosco – dice il Dio – mettiti sotto quel nocciolo umido di brina, e fai in modo di ascoltare il rumore delle stille che cadono. Fatto? Ora ti spiegherò una cosa fondamentale. Questo – dice – è un orologio per il mondo di fuori.
E tira fuori una cipolla meravigliosa, di acciaio brunito con un disegno di stelle e di pesci …
È meraviglioso – dico io.
Il diavolo ne ha di più belli … ma anche questo non è male. Questo è l’orologio che segna il tuo giorno cosiddetto normale: quello del far tardi a scuola, dell’alzarsi presto, delle ore che non passano mai, dei calendari, del lei guarirà in dieci giorni, del lei morirà tra sei mesi, dei moti stellari, delle maree e delle partite di calcio. Ma attenzione!
Il signor Dio ingoia l’orologio in un boccone
Ora ascolta
E io ascoltai il ticchettio delle gocce che cadevano dal nocciolo.
Ecco, questo è il rumore dell’orologio dentro. Questo misura un tempo che non va diritto, ma avanti e indietro, fa curve e tornanti, si arrotola, inventa, si rimette in scena. È un tempo che non puoi misurare né coi cronometri, né col più sofisticato astromacchinario. È il tempo tuo, misura la tua vita che è unica, e quindi è diverso dal mio e da quello di Gabriele, il mio emerito cane.
Il cane si inchinò e vidi che aveva un orologio alla zampa.
Non ti spaventare, ma tu vivrai sempre con due orologi, uno fuori e uno dentro. Quello fuori ti sarà utile per non fare tardi a scuola, quando aspetti la corriera e il giorno che muori, per calcolare quanto hai vissuto. L’altro, che comprende centosettantasei tempi protologici, novanta escatologici, e trentasei tempi romanzati caotici, l’hai ingoiato da piccolo, anche se non ricordi…
Stefano Benni - Saltatempo

Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.

È un’azione che non esprime solo i preparativi immediati (le ragazze che si svegliano e in tutta fretta recuperano e accendono le lampade), ma che funziona solo se i preparativi sono stati fatti bene prima. Non basta svegliarsi all’ultimo momento. Posso anche avere un momento di sonnolenza spirituale, ma se a tempo debito ho provveduto al necessario, non ho problemi a recuperare l’attenzione. In caso contrario la luce della mia lampada si spegne, non è stata curata, non ho saputo individuare e preparare il grande momento, e quando arriva non sono pronto.

Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.

Il proprio ‘olio’, il proprio carburante, è personale, è ciò che ho provveduto perché la lampada della mia vita sia accesa, quindi indichi che non mi sono dimenticato dello sposo. La lampada accesa è il segno della propria partecipazione: io ci sono, sono pronto. Anche se lo sposo tarda, anche se lo sposo non arriva, io sono pronto per lui, perché è lui che mi interessa. È vero che l’attesa può allentarsi, e io addormentarmi, ma questo è il segno della mia debolezza, dei miei limiti, non del mio poco amore. Io ti amo, Signore, ma non riesco sempre a essere sveglio e attento. Però voglio essere pronto quando arrivi, in qualunque momento questo avvenga.

Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”.


Le stolte hanno perso il kairòs, il momento buono, perché non hanno saputo gestire bene il chronos, il tempo che avevano a disposizione.

la luce della lampada non brillerà più in te;
e voce di sposo e di sposa non si udrà più in te. Ap 18, 23

Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.

Questa affermazione sottolinea una mancanza totale di rapporto. Non è solo l’errore di un momento, l’assopimento o l’essere stati presi alla sprovvista. ‘Non vi conosco’ significa che non c’è mai stato incontro, che non c’è mai stato fidanzamento. E non ci si sposa con qualcuno che non si conosce, che non è mai stato realmente innamorato.
Le sagge sono state tali perché davvero innamorate, e ora che arriva il grande momento sono pronte. Il matrimonio si può celebrare, la vita insieme può iniziare.

Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, 
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più « Abbandonata », 
né la tua terra sarà più detta « Devastata »,
ma tu sarai chiamata « Mio compiacimento » 
e la tua terra, « Sposata »,
perché si compiacerà di te il Signore 
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine, 
così ti sposerà il tuo creatore;
come gioisce lo sposo per la sposa, 
così per te gioirà il tuo Dio. Is, 62, 1-5

venerdì 4 novembre 2011

san carlo borromeo

Tutti siamo certamente deboli, lo ammetto, ma il Signore Dio mette a nostra disposizione mezzi tali che, se lo vogliamo, possiamo far molto. Senza di essi però non sarà possibile tener fede all'impegno della propria vocazione. 
Facciamo il caso di un sacerdote che riconosca sì di dover essere temperante, di dover dar esempio di costumi severi e santi, ma che poi rifiuti ogni mortificazione, non digiuni, non preghi, ami conversazioni e familiarità poco edificanti; come potrà costui essere all'altezza del suo ufficio? Ci sarà magari chi si lamenta che, quando va a celebrare la Messa, la sua mente si popoli di mille distrazioni. Ma prima di iniziare la Messa, come si è preparato, quali mezzi ha predisposto e usato per conservare il raccoglimento? 
Vuoi che ti insegni come accrescere maggiormente la tua partecipazione interiore alla celebrazione, come rendere più gradita a Dio la tua lode e come progredire nella santità? Ascolta ciò che ti dico. Se già qualche scintilla del divino amore è stata accesa in te, non cacciarla via, non esporla al vento. Tieni chiuso il focolare del tuo cuore, perché non si raffreddi e non perda calore. Fuggi, cioè le distrazioni per quanto puoi. Rimani raccolto con Dio, evita le chiacchiere inutili. Hai il mandato di predicare e di insegnare? Studia e applicati a quelle cose che sono necessarie per compiere bene questo incarico. Dà sempre buon esempio e cerca di essere il primo in ogni cosa. Predica prima di tutto con la vita e la santità, perché non succeda che essendo la tua condotta in contraddizione con la tua predica tu perda ogni credibilità. Eserciti la cura d'anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso. 
Comprendete, fratelli, che niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni: Canterò, dice il profeta, e mediterò (cfr. Sal 100, 1) Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la Messa, medita ciò che offri. Se preghi i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate; e «tutto si faccia tra voi nella carità» (1 Cor 16, 14). Così potremo facilmente superare le difficoltà che incontriamo, e sono innumerevoli, ogni giorno. Del resto ciò è richiesto dal compito affidatoci. Se così faremo avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri.

by Marco Ferrari

martedì 1 novembre 2011

santi

A che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità? Perché ad essi gli onori di questa stessa terra quando, secondo la promessa del Figlio, il Padre celeste li onora? A che dunque i nostri encomi per essi? I santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. E' chiaro che, quando ne veneriamo la memoria, facciamo i nostri interessi, non i loro. 
Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri. Il primo desiderio, che la memoria dei santi o suscita o stimola maggiormente in noi, è quello di godere della loro tanto dolce compagnia e di meritare di essere concittadini e familiari degli spiriti beati, di trovarci insieme all'assemblea dei patriarchi, alle schiere dei profeti, al senato degli apostoli, agli eserciti numerosi dei martiri, alla comunità dei confessori, ai cori delle vergini, di essere insomma riuniti e felici nella comunione di tutti i santi. Ci attende la primitiva comunità dei cristiani, e noi ce ne disinteresseremo? I santi desiderano di averci con loro e noi e ce ne mostreremo indifferenti? I giusti ci aspettano, e noi non ce ne prenderemo cura? No, fratelli, destiamoci dalla nostra deplorevole apatia. Risorgiamo con Cristo, ricerchiamo le cose di lassù, quelle gustiamo. Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipiamo con i voti dell'anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l'aspirazione più intensa a condividerne la gloria. Questa bramosia non è certo disdicevole, perché una tale fame di gloria è tutt'altro che pericolosa.


Vi è un secondo desiderio che viene suscitato in noi dalla commemorazione dei santi, ed è quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro, e noi pure facciamo con lui la nostra apparizione nella gloria. Frattanto il nostro capo si presenta a noi non come è ora in cielo, ma nella forma che ha voluto assumere per noi qui in terra. Lo vediamo quindi non coronato di gloria, ma circondato dalle spine dei nostri peccati.
Si vergogni perciò ogni membro di far sfoggio di ricercatezza sotto un capo coronato di spine. Comprenda che le sue eleganze non gli fanno onore, ma lo espongono al ridicolo.
Giungerà il momento della venuta di Cristo, quando non si annunzierà più la sua morte. Allora sapremo che anche noi siamo morti e che la nostra vita è nascosta con lui in Dio. Allora Cristo apparirà come capo glorioso e con lui brilleranno le membra glorificate. Allora trasformerà il nostro corpo umiliato, rendendolo simile alla gloria del capo, che è lui stesso.
Nutriamo dunque liberamente la brama della gloria. Ne abbiamo ogni diritto. Ma perché la speranza di una felicità così incomparabile abbia a diventare realtà, ci è necessario il soccorso dei santi. Sollecitiamolo premurosamente. Così, per loro intercessione, arriveremo là dove da soli non potremmo mai pensare di giungere.

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate (Disc. 2)