sabato 18 maggio 2013

mi ami?



Gv 21, 1-19

Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.

Ciascuno dei componenti di questo gruppo è identificato dal proprio nome (tranne ‘gli altri due discepoli’) e da un altro appellativo, ogni volta riferito a un aspetto diverso della propria vita:
Simone ha il nome che gli ha dato Gesù stesso: Pietro.
Tommaso ha un soprannome: Didimo, gemello.
Natanaele è identificato dalla sua origine: Cana di Galilea.
Giacomo e Giovanni sono identificati dal nome del padre, Zebedeo.
Gli ‘altri due discepoli’ lasciano la possibilità di inserire in questo gruppo anche i nostri nomi, se vogliamo. Oppure rappresentano ‘gli altri’ che la chiesa comincia ad accogliere, oltre gli apostoli e i discepoli. siamo nei giorni dopo la resurrezione di Gesù, ma questo periodo dura ancora oggi. Ciascuno di questi personaggi arriva da una propria esperienza personale, da una propria famiglia, luogo di origine, condizione sociale. Così era formato il gruppo degli apostoli. Così è formata anche la chiesa.

Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te».

Questa affermazione di Pietro può essere letta in due modi.
Pietro, dopo l’intensa esperienza con Gesù, comprendente anche l’incontro con lui risorto, guarda indietro, alla sua vita precedente l’incontro con Gesù, e in qualche modo considera conclusa, per quanto bella sia stata, quella esperienza. Il richiamo della vita quotidiana, con le sue esigenze, è forte (non dimentichiamo che Pietro è sposato, e ha una famiglia a cui badare). È stato bello stare con Gesù, ma ora bisogna pensare a vivere. Quell’esperienza non lo ha ancora coinvolto fino in fondo, tanto da segnarlo definitivamente.
Altra lettura, più simbolica, spirituale: Pietro è stato chiamato da Gesù a diventare pescatore di uomini. Quel suo ‘vado a pescare’ può essere visto come un tentativo di Pietro di darsi da fare in quel senso, anche se l’episodio parla di una pesca materiale, di pesci veri e propri. Ovviamente le letture spirituali e simboliche sono sempre pericolose, perché rischiano di dire tutto e il contrario di tutto. Ma la continuazione del brano mi sembra lasci qualche spiraglio in quella direzione. Non dimentichiamo che siamo nel vangelo di Giovanni, che contiene profonde riflessioni spirituali e teologiche. Pietro decide di andare a pescare, di darsi da fare, ma senza il Signore. Gli altri lo seguono.

Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci.


A differenza degli apostoli, che hanno tentato di fare da soli senza ottenere nulla, senza fatica Gesù si propone come l’unico che può ottenere risultati.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Gv 15, 4-5

Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.

La consapevolezza di Pietro, aiutato in questo da Giovanni, ci riporta all’ipotesi simbolica accennata più sopra. Pietro era convinto di dover fare da solo non perché fosse egoista, ma perché riteneva che davvero ora toccasse a lui. Ma da solo non sa vedere la presenza del Signore. Ha bisogno di un aiuto, di qualcuno che conosca meglio di lui il Signore e che sappia individuare la sua presenza.
Da secoli nelle due figure di Pietro e di Giovanni la chiesa intravede la propria parte gerarchica (Pietro, il primo papa) e la propria parte spirituale (Giovanni, il discepolo che Gesù amava). È Pietro il capo, ma è Giovanni che sa vedere meglio Gesù, e Pietro senza Giovanni non sa sempre guardare nella direzione giusta. Pietro deve farsi aiutare da Giovanni, e Giovanni deve saper rispettare il ruolo di Pietro.
C’è un altro episodio, sempre nel vangelo di Giovanni, in cui si vedono bene i due ruoli:

Maria di Màgdala … corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli perciò se ne tornarono di nuovo a casa. Gv 20, 1-10


Giovanni arriva primo, ma lascia entrare Pietro prima di lui. Ma è ancora Giovanni che riesce a ‘vedere e credere’ per primo. Intuizione che sarà preziosa proprio nell’episodio che stiamo analizzando.

Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.

Gesù ha già pescato per loro, mentre si arrabattavano in mezzo al mare. E al pesce ha aggiunto anche del pane.

Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò.

Gesù si fa comunque portare del pesce che loro hanno pescato (su suo intervento). Giovanni è un vangelo molto complesso, in cui l’autore agli eventi della vita di Gesù aggiunge una visione più vasta, che fa intravedere dietro alle vicende del gruppo degli apostoli la vita della comunità cristiana. Cominciano a delinearsi i criteri con cui la comunità cristiana deve valutare la propria efficienza, secondo Gesù: noi facciamo qualcosina, su sua indicazione, e solo quello che facciamo guidati da lui porta risultati, e intanto lui per conto suo fa qualcos’altro, probabilmente molto più di quello che possiamo aver fatto noi con i nostri sforzi. E poi si mette insieme il tutto.

Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.

‘Venite a mangiare’. Per lavorare occorre mangiare. Anche per lavorare nella vigna del Signore, anche per essere validi pescatori di uomini bisogna mangiare. Ma il cibo che serve per fare queste cose non è tanto il cibo materiale, quanto quello sacramentale: l’Eucarestia in modo particolare (‘prese del pane e lo diede loro’, richiamo all’istituzione dell’Eucarestia nell’Ultima Cena). Notare che il pane lo ha procurato Gesù. E non è solo un ‘cibo’ spirituale che Gesù offre, ma in quel cibo, nell’Eucarestia, c’è lui stesso, il suo corpo, la sua presenza. Gesù non offre solo ai discepoli gli insegnamenti, le indicazioni e gli aiuti perché riescano a portare a compimento il loro incarico, ma li invita a diventare come lui, a diventare lui. Questo fa l’Eucarestia.

Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore.


Ora tocca a Pietro. Tre domande che risistemano i tre suoi precedenti rinnegamenti. Ma dichiarano anche il criterio fondamentale che Gesù vuole dare ai suoi, alla comunità che sarà di lì a breve chiamata ‘cristiana’: non importa tanto l’organizzazione quanto l’amore verso Cristo.
Il cristiano non è colui che si dà da fare per conto suo ‘in nome di Cristo’ ma è chi fa le cose di Cristo, anzi, è colui che poco a poco diventa Cristo, perciò non può fare che le cose che fa lui. Il cristiano è colui che per prima cosa deve chiedersi ogni giorno: quanto amo Cristo? Quanto cammino con lui? Quanto lui è in me? La domanda viene fatta a Pietro anche perché Pietro è colui a cui Gesù ha affidato la guida di questa comunità. Gesù non gli chiede: ti sei organizzato bene? Hai pensato a quali strutture costruire? Sei un buon manager? Gli chiede: mi ami? Se sì, questo basta.
Gesù lo sa benissimo che Pietro è insufficiente, non capace, difettoso. Ma per Gesù questo non ha importanza. Anzi, è meglio, così non si monta la testa. San Paolo saprà rendere molto bene questa esperienza che lui ha vissuto in modo molto intenso:

Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo … quando sono debole, è allora che sono forte. II Cor 12, 7-10

Questa domanda fatta davanti a tutti gli altri è anche una indicazione per loro, mentre viene loro proposto Pietro come capo: controllate che si occupi in primo luogo di questo, voi suoi collaboratori.

In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Ora finalmente il ‘seguimi’ di Gesù comincia ad avere un senso più completo. Il primo ‘seguimi’ era quello di un maestro che si tira dietro degli allievi, che non hanno ancora capito bene, ma ora è un  comando definitivo: questo devi fare, Pietro, seguirmi, non come hai voluto fare in passato, quando avevi cercato di starmi davanti

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Mc 8, 32-33

Quando diventerai me, allora davvero penserai secondo Dio.

lunedì 6 maggio 2013

capo e corpo




Come il capo e il corpo formano un unico uomo, così il Figlio della Vergine e le sue membra costituiscono un solo uomo e l’unico Figlio dell’uomo. Secondo la Scrittura il Cristo totale e integrale è capo e corpo, vale a dire tutte le membra assieme sono un unico corpo, il quale con il suo capo è l’unico Figlio dell’uomo, con il Figlio di Dio è l’unico Figlio di Dio, con Dio è lui stesso un solo Dio. Quindi tutto il corpo con il capo è Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Dio. Perciò si legge nel vangelo: Voglio, o Padre, che come io e tu siamo una cosa sola, così anch’essi siano una cosa sola con noi (cfr. Gv 17, 21). Secondo questo testo della Scrittura, né il corpo è senza capo né il capo senza corpo, né il Cristo totale, capo e corpo, è senza Dio. Tutto con Dio è un solo Dio. Ma il Figlio di Dio è con Dio per natura, il Figlio dell’uomo è con lui in persona, mentre il suo corpo forma con lui una realtà sacramentale. Pertanto le membra autentiche e fedeli di Cristo possono dire di sé, in tutta verità, ciò che egli è, anche Figlio di Dio, anche Dio. Ma ciò che egli è per natura, le membra lo sono per partecipazione; ciò che egli è, lo è in pienezza, esse lo sono solo parzialmente. Infine ciò che il Figlio di Dio è per generazione, le sue membra lo sono per adozione, come sta scritto: «Avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8, 15). 



Secondo questo spirito «diede loro il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1, 12), perché ad uno ad uno siamo ammaestrati, da colui che è il primogenito tra molti fratelli, a dire: «Padre nostro, che sei nei cieli». Infatti per quel medesimo Spirito Santo per cui il Figlio dell’uomo, nostro capo, è nato dal grembo della Vergine, noi rinasciamo dal fonte battesimale figli di Dio, suo corpo. E come egli fu senza alcun peccato, così anche noi otteniamo la remissione di tutti i peccati. Come egli portò sulla croce nel suo corpo di carne i peccati di tutto il corpo di carne, così dona a tutto il corpo mistico la liberazione dei peccati per la grazia della rigenerazione. Sta scritto infatti: «Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male» (Sal 31, 2). Questo uomo beato è senza dubbio Cristo. Egli per il fatto che il capo del Cristo mistico è Dio, rimette i peccati; e per il fatto che il capo del corpo è un unico uomo, non ha nulla da farsi perdonare. E poi, anche se il corpo del capo è costituito da molti, niente gli è imputato. Egli è giusto in se stesso e giustifica se stesso. Unico salvatore, unico salvato. Egli portò nel suo corpo sulla croce ciò che rimosse dal suo corpo attraverso il battesimo e salva ancora per mezzo della croce e dell’acqua. È Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, che aveva preso su di sé. È sacerdote e sacrificio e Dio. Per questo offrendo sé a se stesso, riconcilia se stesso per mezzo di se stesso con se stesso e inoltre con il Padre e con lo Spirito Santo.

 Dai «Discorsi» del beato Isacco, abate del monastero della Stella

giovedì 2 maggio 2013

Berlicche 18



Mio caro Malacoda,
perfino sotto Ciriatto Sannuto devi aver appreso nel collegio la tecnica monotona della tentazione sessuale, e dal momento che, per noi spiriti, questo argomento è quanto mai stucchevole (benchè necessario come parte della nostra educazione), voglio passarci sopra. Ma sui grandi problemi che esso implica credo che tu abbia molto da imparare.
Ciò che il Nemico esige dagli uomini prende la forma di un dilemma: o astinenza completa, oppure assoluta monogamia. Fin dalla prima grande vittoria di Nostro Padre abbiamo reso loro difficilissima la prima. E negli ultimi secoli abbiamo continuato a restringere sempre più la seconda, come via di evasione. Abbiamo fatto ciò per mezzo dei poeti e dei romanzieri, che hanno convinto gli esseri umani che un’esperienza curiosa e di solito di breve durata chiamata da essi ‘innamorarsi’, è l’unico motivo rispettabile per sposarsi. Che il matrimonio può, e dovrebbe, rendere permanente questa eccitazione. E che un matrimonio che non lo fa non obbliga più.
Codesta idea è la nostra parodia di un’idea che viene dal Nemico. Tutta la filosofia dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra, e specialmente che un io non è un altro io. Il mio bene è il mio bene, il tuo è il tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti. Se si espande, lo fa spingendo da una parte tutti gli altri oggetti, oppure assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende la forma del cibarsi. Per noi significa assorbire la volontà e la libertà da un io più debole in uno più forte. ‘Essere’ significa ‘essere in competizione’. Orbene, la filosofia del Nemico non è né più né meno di un continuo tentativo di evasione da questa verità evidentissima. Egli ha di mira una contraddizione: le cose devono essere molte e tuttavia, in qualche modo, anche una. Il bene di uno deve essere anche il bene di un altro. Egli chiama questa impossibilità ‘amore’, e questa stessa panacea può scoprirsi in tutto ciò che egli fa, e perfino in ciò che egli è (o pretende di essere). Così, egli non si accontenta neppure in se stesso di essere una pura unità matematica, e pretende di essere tre così come uno, affinchè questo assurdo riguardo all’amore trovi un punto d’appoggio nella sua stessa natura. All’altra estremità della scala introduce nella materia quell’oscena invenzione, l’organismo, nel quale le parti sono pervertite dal loro destino naturale di competizione perché collaborino. Il suo vero motivo per fissarsi sul sesso come metodo di riproduzione tra gli esseri umani risulta troppo chiaro dall’uso che egli ne ha fatto. Dal nostro punto di vista il sesso avrebbe potuto essere innocentissimo. Avrebbe potuto costituire semplicemente un’altra maniera con la quale l’io più forte depredava l’io più debole, come di fatto avviene per i ragni, dove la sposa conclude le nozze mangiandosi lo sposo. Ma tra gli esseri umani il Nemico ha associato gratuitamente l’affetto tra le due parti con il desiderio sessuale. Ha inoltre reso la figliolanza dipendente dai genitori e ha dato ai genitori l’impulso di sostenerla, producendo in tal modo la ‘famiglia’, che assomiglia all’organismo, solo è peggiore perché i membri sono più distinti, e tuttavia anche uniti in una maniera più cosciente e più responsabile. Tutta la costruzione infatti si riduce ad essere semplicemente un’altra invenzione per trascinare dentro all’Amore. Ora viene lo scherzo: il Nemico ha descritto la coppia sposata come ‘una sola carne’. Non ha detto ‘una coppia felicemente sposata’, e neppure ‘una coppia che si è sposata perché i due si amavano’, ma si può fare in modo che gli uomini ignorino tutto ciò. Si può anche far loro dimenticare che quell’uomo che si chiama Paolo non ha ristretto la cosa alle coppie sposate. Semplicemente il congiungimento, per lui, forma ‘una sola carne’. Si può così fare in modo che gli esseri umani accettino come eulogie retoriche dell’essere innamorati quelle cose che di fatto non sono se non semplici descrizioni del vero significato del rapporto sessuale. La verità è che, ogni volta che un uomo va con una donna, piaccia loro o non piaccia, sorge tra di loro una relazione trascendentale che deve essere eternamente goduta o eternamente sopportata. Dall’affermazione vera che questa relazione trascendentale era stata voluta perché producesse e (se la si pone con spirito di obbedienza) troppo spesso produrrà di fatto, l’affetto e la famiglia, gli uomini possono venire indotti a concludere la falsa credenza che la misura di affetto, paura e desiderio che essi chiamano ‘essere innamorato’ sia l’unica cosa che fa felice il matrimonio. Questo errore si può produrre con facilità perché, nell’Europa occidentale, spessissimo l’innamorarsi precede i matrimoni, che vengono fatti con l’intenzione di obbedire ai disegni del Nemico, vale a dire con l’intenzione della fedeltà, della fecondità e della buona volontà, come molto spesso, sebbene non sempre, l’emozione religiosa accompagna la conversione. In altre parole, bisogna incoraggiare gli uomini a considerare come base del matrimonio una versione a colori vivaci e distorta di qualcosa che il Nemico promette veramente come suo risultato. Ne seguiranno due vantaggi. In primo luogo, gli esseri umani che non hanno il dono della continenza si allontaneranno con terrore dal cercare il matrimonio come una soluzione, perché non si sentono ‘innamorati’. E, grazie a noi, l’idea di sposarsi per qualsiasi altro motivo appare loro come bassa e cinica. Sì, pensano proprio così. Essi considerano l’idea della lealtà verso un compagno allo scopo di recarsi un aiuto reciproco, o di preservare la castità, o di trasmettere la vita, come qualcosa di più basso che non una tempesta di emozione. (non tralasciare di far credere al tuo uomo che la funzione religiosa del matrimonio è ripugnante). In secondo luogo, qualsiasi infatuazione sessuale dovrà essere considerata come ‘amore’, e si deve far credere che ‘l’amore’ scusa l’uomo da ogni colpa, e lo protegge da tutte le conseguenze dello sposare un pagano, uno sciocco o un vizioso. Ma ritornerò sull’argomento nella prossima lettera.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche