venerdì 26 settembre 2014

Un'ora soltanto



Mt 20, 1-16

Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna.

Parabola che casca a fagiolo in questi giorni di discussioni e polemiche riguardanti il mondo del lavoro. Come sempre però l’orizzonte di Gesù è diverso dal nostro, pur comprendendolo.
In Italia facciamo fatica a passare dalla cultura del lavoro fisso e sicuro a quella del lavoro flessibile (che rischia di essere anche e soprattutto provvisorio e occasionale) e di questo cambio di orizzonte si discute tanto. La situazione lavorativa di cui parla questo testo parte da una precarietà ancora più esasperata, e ancora molto presente in gran parte del mondo: il lavoro a giornata. Si esce al mattino e si aspetta che qualcuno passi ad offrire lavoro. Se questo avviene per oggi si è a posto. Domani si vedrà.


Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono.

Gesù, pur scegliendo come ambientazione della propria parabola il tema del lavoro, ovviamente non vuole fare il sindacalista ma rivelarci qualcosa della nostra condizione personale e soprattutto del nostro rapporto con un Dio che ci sorprende sempre per le cose inaspettate che fa.

Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Lavoratori ‘assunti’ in diversi orari della giornata, fino all’estremo di chi viene chiamato all’ultimo momento, poco prima dell’orario di fine lavoro. Che criterio userà il padrone della vigna nella loro retribuzione? E soprattutto, che cosa ci sta dicendo Gesù con questo strano paragone? Se nel padrone della vigna vediamo la figura di Dio, noi dobbiamo identificarci con i lavoratori. A quali nostre situazioni di vita si richiama la successione delle chiamate durante l’arco della giornata? E non è ancora finita: non solo ci sono situazioni diverse tra con chi arriva prima e chi arriva dopo (e tra l’altro di chi è la colpa se qualcuno viene chiamato solo all’ultimo momento, dei lavoratori o del padrone?), a questo si aggiunge uno strano criterio di retribuzione che viene attuato.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».


C’è una evidente ingiustizia nella retribuzione degli operai, come alcuni di loro fanno giustamente notare. Ma nello stesso tempo ci sono degli accordi che vengono rispettati da parte del datore di lavoro: ‘non hai forse concordato con me per un denaro?’. Se ingiustizia c’è è un’ingiustizia alla rovescia. Solitamente chi commette un’ingiustizia dà meno di quanto dovrebbe. In questo caso viene dato di più. Ma rimane pur sempre un’ingiustizia, o quantomeno un qualche tipo di squilibrio. Chi ha lavorato tutto il giorno si lamenta perché riceve la stessa paga di chi ha lavorato una sola ora. Cosa significa tutto questo? E cosa c’entriamo noi che stiamo cercando di capire il messaggio di questa parabola? Credo che una chiave per sbrogliare questo intreccio sia una semplice constatazione. Istintivamente ci viene da prendere le parti di chi ha lavorato di più, e se vogliamo paragonare la situazione raccontata da questa parabola con la nostra condizione personale di cristiani impegnati ci viene da domandarci: il fatto che il Signore alla fine trovi il modo per salvare tutti, anche chi ha fatto ben poco per lui (magari senza sua colpa, perchè nessuno lo ha chiamato), non suscita in noi una rivendicazione, o almeno un'impressione di ingiustizia fatta nei nostri confronti?
Ma se valutiamo la nostra vita, le nostre giornate, onestamente, chi di noi può rivendicare di impegnarsi a tempo pieno per il Signore? Nei suoi confronti siamo davvero i più impegnati, i più assidui, i più devoti? O piuttosto dovremmo constatare di essere quelli che a lui dedicano ben poco tempo, energie e impegno? In quale vigna lavoriamo solitamente, in quella del Signore o nella nostra? Allora piano piano scopriremmo che noi, paragonati ai lavoratori della parabola, non siamo affatto i primi, ma gli ultimi, quelli che dedicano al lavoro per il Signore e Padrone ‘un’ora soltanto’, per citare le parole di Gesù. Anzi, credo che in realtà dedichiamo tutti quanti ben di meno.
Allora forse, invece di lamentarci e brontolare, ci verrà da ringraziare questo strano Padrone che pur servendolo così poco e male ci dà la stessa paga di chi davvero ha dedicato per lui tutta la vita (e magari ci ha anche lasciato le penne).


mercoledì 24 settembre 2014

Scontro



Pubblico un secondo articolo di Umberto Eco, scritto pochi giorni dopo il precedente, perchè mi sembra ancora più attuale, dopo le notizie di questi giorni.

Scenari di una guerra globale

di UMBERTO ECO


La questione che agita la coscienza di tutti in questi giorni non è se il terrorismo sia bene o male e se vada debellato, anche in modo violento: su questo, almeno in occidente e in molti paesi arabi, il consenso è unanime, e persino un pacifista ammette che una dose di violenza sia indispensabile in ogni reazione di legittima difesa. Altrimenti non dovrebbero esistere neppure le forze di polizia, e non si dovrebbe usare violenza a chi sta sparando sulla folla. I veri problemi sono altri due: se la guerra sia la forma giusta di violenza e se lo scontro che ci attende debba diventare uno scontro di civiltà, o di culture che dir si voglia, ovvero una guerra tra oriente e occidente. D'ora in poi userò l'espressione "guerra E/O" per comodità, così come durante la guerra fredda, con molta flessibilità geografica, si consideravano Est la Cecoslovacchia e Ovest la Finlandia, Est la Cina e Ovest il Giappone. E naturalmente, parlando di un confronto tra mondo cristiano e mondo musulmano, metto tra i cristiani tutti gli occidentali, anche gli atei e gli agnostici, così come nel mondo musulmano porremo anche fedeli di poca fede, che bevono vino di nascosto curandosi pochissimo del Corano.

Da un lato le operazioni di guerra possono spingere le masse fondamentaliste a oriente a prendere il potere nei vari stati musulmani, anche quelli che oggi appoggiano gli Stati Uniti, dall'altro, l'intensificarsi di attentati insostenibili può spingere le masse occidentali a considerare l'Islam nel suo complesso come il nemico. Dopo di che si avrebbe lo scontro frontale, l'Armageddon decisivo, l'urto finale tra le forze del Bene e quelle del Male (e ciascuna parte considererebbe male la parte opposta). Non è uno scenario impossibile. Quindi, come tutti gli scenari, deve essere delineato sino alle sue ultime conseguenze.

Ammetto che per farlo bisogna esercitare l'arte della fantascienza, ma anche il crollo delle due torri era stato anticipato da molta fantascienza cinematografica, e dunque gli scenari fantascientifici, se pure non dicono quello che necessariamente avverrà, certamente servono a dire quello che potrebbe avvenire.
Scontro frontale, dunque, come nel passato. Ma nel passato c'era un'Europa ben definita nei suoi confini, con il Mediterraneo tra cristiani e infedeli, e i Pirenei che tenevano isolata la propaggine occidentale del continente, ancora in parte araba. Dopo di che lo scontro poteva assumere due forme, o l'attacco o il contenimento.

L'attacco è stato costituito dalle Crociate, ma si è visto che cosa è successo. L'unica crociata che ha portato a una effettiva conquista (con l'installazione di regni franchi in Medio Oriente) è stata la prima. Poi per un secolo e mezzo (tornata Gerusalemme in mano ai musulmani) ce ne sono state altre sette, senza considerare spedizioni fanatiche e dissennate come la cosiddetta crociata dei fanciulli. In ciascuna di esse la risposta all'appello di San Bernardo o dei pontefici è stata stanca e confusa: la seconda crociata era male organizzata, la terza ha visto il Barbarossa morire per strada, francesi e inglesi arrivare sulle coste nemiche e, dopo qualche conquista e qualche patteggiamento, tornarsene a casa. Nella quarta i cristiani si sono dimenticati Gerusalemme e si sono fermati a saccheggiare Costantinopoli. La quinta e la sesta sono state praticamente due viaggi di andata e ritorno. Nella settima e nell'ottava il buon San Luigi si è battuto bene sulle coste, ma non ha ottenuto nulla di consistente, ed è morto laggiù. Fine delle crociate.

L'unica operazione militare riuscita è stata più tardi la Reconquista della Spagna, ma non era una spedizione oltremare, bensì una lotta di riunificazione nazionale (un poco come il Piemonte col resto dell'Italia), che non ha risolto il confronto tra i due mondi, bensì ne ha semplicemente spostato la linea di confine.

Quanto al contenimento, si sono fermati i turchi davanti a Vienna, si è vinto a Lepanto, si sono erette torri sulle coste per avvistare i pirati saraceni, e si è andati avanti così per qualche secolo. I turchi non hanno conquistato l'Europa, ma il confronto è rimasto. Dopo di che si assiste negli ultimi secoli a un nuovo confronto: l'occidente attende che l'oriente s'indebolisca e lo colonizza. Come operazione è stata certamente coronata da successo, e per lungo tempo, ma i risultati li vediamo oggi. Il confronto non è stato eliminato, bensì acuito.
Si potrebbe dire che in fin dei conti l'occidente ha avuto la meglio, l'Europa non è stata invasa dagli uomini col turbante e la scimitarra, e questi, a casa propria, sono stati indotti ad accettare in gran parte la tecnologia occidentale. Potrebbe essere considerato un successo, se non fosse che è grazie alla tecnologia occidentale che Bin Laden è riuscito a far crollare le due torri. Immagino che i produttori occidentali di armi, ogni volta che riescono a vendere alta tecnologia bellica in oriente, si freghino le mani e per celebrare acquistino una nuova barca lunga cento metri. Se vi va bene così, allora allegri ragazzi, avete vinto.

Ma sino ad ora ho mancato alla mia promessa, ed ho parlato di storia, non di fantascienza. Passiamo alla fantascienza, che ha il consolante vantaggio di non essere ancora vera nel momento in cui viene immaginata. Allora, si ripropone lo scontro frontale, ovvero la Guerra E/O. Che cosa avrebbe questo scontro di diverso rispetto ai confronti del passato? Ai tempi delle crociate il potenziale bellico dei musulmani non era tanto dissimile da quello dei cristiani, spade e macchine ossidionali erano a disposizione di entrambi. Oggi l'occidente è in vantaggio quanto a tecnologia di guerra. E' vero che il Pakistan, in mano ai fondamentalisti, potrebbe usare l'atomica, ma al massimo riuscirebbe, diciamo, a radere al suolo Parigi, e subito le sue riserve nucleari verrebbero distrutte. Se cade un aereo americano ne fanno un altro, se cade un aereo siriano avrebbero difficoltà ad acquistarne uno nuovo in occidente. L'Est rade al suolo Parigi e l'Ovest getta una bomba atomica sulla Mecca. L'Est diffonde il botulino per posta e l'Ovest gli avvelena tutto il deserto d'Arabia, come si fa coi pesticidi nei campi sterminati del Midwest, e muoiono persino i cammelli. Benissimo. Non sarebbe neppure una cosa troppo lunga, un anno al massimo, poi si continua tutti con le pietre, ma loro avrebbero forse la peggio.

Salvo che c'è un'altra differenza rispetto al passato. Ai tempi delle crociate i cristiani non avevano bisogno del ferro arabo per fare le loro spade, né i musulmani del ferro cristiano. Oggi invece anche la nostra tecnologia più avanzata vive sul petrolio, e il petrolio ce l'hanno loro, almeno per la maggior parte. Loro da soli, specie se gli bombardi i pozzi, non ce la fanno più ad estrarlo, ma noi rimaniamo senza. A meno che non si paracadutino milioni di soldati occidentali a conquistare e presidiare i pozzi, ma a quel punto sarebbero loro a farli saltare, e poi una guerra per via di terra, da quelle parti, non è così facile.

L'occidente dovrebbe dunque ristrutturare tutta la sua tecnologia in modo da eliminare il petrolio. Visto che ancora oggi non siamo riusciti a fare un automobile elettrica che vada a più di ottanta chilometri all'ora e non impieghi una notte per ricaricarsi, non so quanto tempo questa riconversione prenderà. Anche a propellere aerei e carri armati, e a far funzionare le nostre centrali elettriche, a energia atomica, senza calcolare la vulnerabilità delle nuove centrali, ci vorrebbe molto tempo. Poi vorrei vedere se le Sette Sorelle ci stanno. Non mi stupirei se dei petrolieri occidentali, pur di continuare a fare profitti, fossero pronti ad accettare un mondo islamizzato.

Ma la cosa non finisce qui. Ai bei tempi andati i saraceni stavano da una parte, oltremare, e i cristiani dall'altra. Se durante le crociate due arabi (magari travestiti) avessero tentato di erigere una moschea a Roma, gli avrebbero tagliato la gola e non ci avrebbero più riprovato. Oggi invece l'Europa è piena di islamici, che parlano le nostre lingue e studiano nelle nostre scuole. Se già oggi alcuni di loro si allineano coi fondamentalisti di casa loro, immaginiamoci se si avesse la Guerra E/O. Sarebbe la prima guerra col nemico sistemato in casa e assistito dalla mutua.
Si badi bene che lo stesso problema si porrebbe al mondo islamico, che ha a casa propria industrie occidentali, e addirittura enclaves cristiane come l'Etiopia. Siccome il nemico è per definizione cattivo, tutti i cristiani d'oltremare li diamo per perduti. La guerra è guerra. Sono già in partenza carne da foiba. Poi li canonizzeremo tutti in piazza San Pietro.
Che cosa facciamo invece a casa nostra? Se il conflitto si radicalizza oltre misura, e crollano altri due o tre grattacieli, o addirittura San Pietro, si avrà la caccia al musulmano. Una sorta di notte di San Bartolomeo, o di Vespri Siciliani: si prende chiunque abbia i baffi e la carnagione non chiarissima e lo si sgozza. Si tratta di ammazzare milioni di persone, ma ci penserà la folla senza scomodare le forze armate. Naturalmente bisognerebbe vedere se si sgozza anche un arabo cristiano, o un siciliano che non ha gli occhi azzurri da normanno, ma noi siamo così politicamente corretti che sulla carta d'identità non sta scritto se sei cristiano o musulmano, e poi bisogna diffidare anche di europei biondi che si sono fatti infedeli. Come si era detto nella guerra contro gli albigesi, per ora ammazzateli tutti, poi Dio riconoscerà i suoi. D'altra parte non puoi rischiare di fare una guerra planetaria e lasciar rimanere a casa tua anche un solo fondamentalista che poi va a fare il kamikaze in una stazione.

Potrebbe prevalere la ragione. Non si sgozza nessuno. Ma anche i liberalissimi americani, all'inizio della seconda guerra mondiale, hanno messo in campo di concentramento, sia pure con molta umanità, tutti i giapponesi che avevano in casa, anche se erano nati laggiù. Quindi (e sempre senza guardare per il sottile) si vanno a individuare tutti coloro che potrebbero essere musulmani - e se sono, per esempio, etiopici cristiani pazienza, Dio riconoscerà i suoi - e li si mettono da qualche parte. Dove? A fare dei campi di prigionia, con la quantità di extracomunitari che girano per l'Europa, si avrebbe bisogno di spazio, organizzazione, sorveglianza, cibo e cure mediche insostenibili, senza contare che quei campi sarebbero delle bombe pronte a esplodere, se appena ne metti mille insieme, e non puoi fare dei campi per gruppi di quattro persone alla volta.
Oppure li si prende, tutti (e non è facile, ma guai se ne resta appena uno, e bisogna farlo subito, in un colpo solo), li si carica su una flotta di navi da trasporto e si scaricano... Dove? Si dice "scusi signor Gheddafi, scusi signor Hussein, mi prende per favore questi tre milioni di turchi che cerco di sbatter fuori dalla Germania"? L'unica soluzione sarebbe quella degli scafisti, li si buttano a mare. Milioni di cadaveri a galla sul Mediterraneo. Voglio vedere il governo che decide di farlo, altro che desaparecidos, persino Hitler massacrava poco alla volta e di nascosto.
Come alternativa, visto che siamo buoni, li lasciamo stare tranquilli a casa nostra, ma dietro a ciascuno mettiamo un agente della Digos che lo sorvegli. E dove trovi tanti agenti? Li arruoli tra gli extracomunitari? E se poi ti viene il sospetto che è venuto negli Stati Uniti, dove le compagnie aeree, per risparmiare, facevano fare i controlli aeroportuali a immigrati dal terzo mondo, e poi gli è venuto in mente che non fossero affidabili?

Naturalmente tutte queste riflessioni potrebbe farle, dall'altra parte della barricata, un musulmano ragionevole. Il fronte fondamentalista non sarebbe certo del tutto vincente, una serie di guerre civili insanguinerebbe i loro paesi portando a orribili massacri, i contraccolpi economici ricadrebbero anche su di loro, avrebbero meno cibo e meno medicine delle poche che hanno oggi, morirebbero come mosche. Ma se si parte dal punto di vista di uno scontro frontale, non ci si deve preoccupare dei loro problemi bensì dei nostri.

Tornando dunque all'Ovest, si creerebbero all'interno del nostro schieramento gruppi filoislamici non per fede ma per opposizione alla guerra, nuove sette che rifiutano la scelta dell'occidente, ghandiani che incrocerebbero le braccia e si rifiuterebbero di collaborare coi loro governi, fanatici come quelli di Waco che inizierebbero (senza essere fondamentalisti musulmani) a scatenare il terrore per purificare l'occidente corrotto.

Ma non è indispensabile pensare solo a queste frange. Sto pensando alla maggioranza. Accetterebbero tutti la diminuzione dell'energia elettrica senza neppure poter ricorrere alle lampade a petrolio, l'oscuramento fatale dei mezzi di comunicazione e quindi non più di un'ora di televisione al giorno, i viaggi in bicicletta anziché in automobile, i cinematografi e le discoteche chiuse, la coda ai McDonalds per avere la razione giornaliera di una fettina di pane di crusca con una foglia d'insalata, insomma la cessazione di una economia della prosperità e dello spreco? Figuriamoci che cosa importa a un afgano o a un profugo palestinese vivere in economia di guerra, per loro non cambierebbe nulla. Ma noi? A quale crisi di depressione e demotivazione collettiva si andrebbe incontro? Saremmo disposti ad accettare l'appello di un nuovo Churchill che ci promettesse lacrime e sangue? Ma se noi italiani, dopo vent'anni di propaganda fascista sulla nostra missione di civiltà, arrivati a un certo punto eravamo contenti di perdere la guerra purché finissero i bombardamenti! Va bene che noi aspettavamo in cambio gli americani buoni con le loro razioni, mentre ora si aspetterebbero i saraceni cattivi che ammazzerebbero preti e frati e metterebbero il velo alle nostre donne, ma saremmo così motivati da accettare ogni sacrificio?
Non si creerebbero per le strade di Europa cortei di oranti che attendono disperati e passivi l'Apocalisse? Abbiamo ammirato la tenuta e l'energia patriottica degli americani dopo la tragedia dell'undici settembre ma, con tutto lo sdegno e la solidarietà che provano, hanno ancora la loro bistecca, la loro automobile e, per chi ha coraggio, le loro linee aeree. E se la crisi petrolifera provocasse il black out, la mancanza di Coca Cola e di Big Mac, la visione di supermarket deserti con appena là un pomodoro e qua una scatoletta di carne scaduta, come si è visto in certi paesi dell'est europeo nei momenti di massima crisi? Quanto si identificherebbero ancora con l'occidente i neri di Harlem, i diseredati del Bronx, i chicanos della California, i Caldei dell'Ohio (sì, ci sono e li ho visti, coi loro abiti e i loro riti)?
L'occidente (e l'America più di tutti) ha fondato la sua forza e la sua prosperità accogliendo a casa propria gente di ogni razza e colore. In caso di confronto frontale, quanto reggerebbe il melting pot?
Infine, che cosa farebbero i paesi dell'America Latina, dove molti, senza essere musulmani, hanno elaborato sentimenti di rancore verso i gringos, tanto che anche laggiù, dopo la caduta delle due torri, c'è chi sussurra che i gringos se la sono cercata?
Insomma, la guerra E/O potrebbe certo vedere un Islam meno monolitico di quello che si pensa, ma certo vedrebbe una cristianità frammentata e nevrotica, dove pochissimi si candiderebbero a essere i nuovi Templari, ovvero i kamikaze dell'occidente.

Questi scenari di fantascienza non li sto inventando io, ora. Anche senza prevedere una guerra totale, ma soltanto un black out accidentale, una trentina di anni fa Roberto Vacca aveva delineato scenari apocalittici nel suo Il medioevo prossimo venturo.

Ripeto: ho delineato uno scenario fantascientifico, e naturalmente spero come tutti che non si avveri. Ma era per dire che, ragionando a filo di logica, questo potrebbe avvenire se scoppiasse una guerra E/O. Tutti gli incidenti che ho previsto derivano dal fatto che esiste la globalizzazione, e in questo quadro interessi ed esigenze delle forze in conflitto sarebbero strettamente intrecciati, come già lo sono, in un gomitolo che non può essere sgomitolato senza distruggerlo.

Il che significa che nell'era della globalizzazione una guerra globale è impossibile, ovvero che porterebbe alla sconfitta di tutti.

(15 ottobre 2001)

lunedì 22 settembre 2014

capire



Riporto qui un articolo di Umberto Eco, apparso non ricordo più dove pochi giorni dopo l'attentato alle Torri Gemelle. Lo avevo salvato perchè mi era sembrato molto interessante, e a tredici anni di distanza me ne sono ricordato perchè mi sembra ancora assai attuale.
Buona lettura.

Le guerre sante tra passione e ragione
di UMBERTO ECO





Che qualcuno abbia, nei giorni scorsi, pronunciato parole inopportune sulla superiorità della cultura occidentale, sarebbe un fatto secondario. E' secondario che qualcuno dica una cosa che ritiene giusta ma nel momento sbagliato, ed è secondario che qualcuno creda a una cosa ingiusta o comunque sbagliata, perché il mondo è pieno di gente che crede a cose ingiuste e sbagliate, persino un signore che si chiama Bin Laden, che forse è più ricco del nostro presidente del Consiglio e ha studiato in migliori università. Quello che non è secondario, e che deve preoccupare un poco tutti, politici, leader religiosi, educatori, è che certe espressioni, o addirittura interi e appassionati articoli che in qualche modo le hanno legittimate, diventino materia di discussione generale, occupino la mente dei giovani, e magari li inducano a conclusioni passionali dettate dall'emozione del momento. Mi preoccupo dei giovani perché tanto, ai vecchi, la testa non la si cambia più.


Tutte le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo per secoli sono nate da adesioni passionali a contrapposizioni semplicistiche, come Noi e gli Altri, buoni e cattivi, bianchi e neri. Se la cultura occidentale si è dimostrata feconda (non solo dall'Illuminismo a oggi ma anche prima, quando il francescano Ruggero Bacone invitava a imparare le lingue perché abbiamo qualcosa da apprendere anche dagli infedeli) è anche perché si è sforzata di "sciogliere", alla luce dell'indagine e dello spirito critico, le semplificazioni dannose. Naturalmente non lo ha fatto sempre, perché fanno parte della storia della cultura occidentale anche Hitler, che bruciava i libri, condannava l'arte "degenerata", uccideva gli appartenenti alle razze "inferiori", o il fascismo che mi insegnava a scuola a recitare "Dio stramaledica gli inglesi" perché erano "il popolo dei cinque pasti" e dunque dei ghiottoni inferiori all'italiano parco e spartano.


Ma sono gli aspetti migliori della nostra cultura quelli che dobbiamo discutere coi giovani, e di ogni colore, se non vogliamo che crollino nuove torri anche nei giorni che essi vivranno dopo di noi. Un elemento di confusione è che spesso non si riesce a cogliere la differenza tra l'identificazione con le proprie radici, il capire chi ha altre radici e il giudicare ciò che è bene o male. Quanto a radici, se mi chiedessero se preferirei passare gli anni della pensione in un paesino del Monferrato, nella maestosa cornice del parco nazionale dell'Abruzzo o nelle dolci colline del senese, sceglierei il Monferrato. Ma ciò non comporta che giudichi altre regioni italiane inferiori al Piemonte.


Quindi se, con le sue parole (pronunciate per gli occidentali ma cancellate per gli arabi), il presidente del Consiglio voleva dire che preferisce vivere ad Arcore piuttosto che a Kabul, e farsi curare in un ospedale milanese piuttosto che in uno di Bagdad, sarei pronto a sottoscrivere la sua opinione (Arcore a parte). E questo anche se mi dicessero che a Bagdad hanno istituito l'ospedale più attrezzato del mondo: a Milano mi troverei più a casa mia, e questo influirebbe anche sulle mie capacità di ripresa. Le radici possono essere anche più ampie di quelle regionali o nazionali. Preferirei vivere a Limoges, tanto per dire, che a Mosca. Ma come, Mosca non è una città bellissima? Certamente, ma a Limoges capirei la lingua. Insomma, ciascuno si identifica con la cultura in cui è cresciuto e i casi di trapianto radicale, che pure ci sono, sono una minoranza. Lawrence d'Arabia si vestiva addirittura come gli arabi, ma alla fine è tornato a casa propria.

Passiamo ora al confronto di civiltà, perché è questo il punto. L'Occidente, sia pure e spesso per ragioni di espansione economica, è stato curioso delle altre civiltà. Molte volte le ha liquidate con disprezzo: i greci chiamavano barbari, e cioè balbuzienti, coloro che non parlavano la loro lingua e dunque era come se non parlassero affatto. Ma dei greci più maturi come gli stoici (forse perché alcuni di loro erano di origine fenicia) hanno ben presto avvertito che i barbari usavano parole diverse da quelle greche, ma si riferivano agli stessi pensieri. Marco Polo ha cercato di descrivere con grande rispetto usi e costumi cinesi, i grandi maestri della teologia cristiana medievale cercavano di farsi tradurre i testi dei filosofi, medici e astrologi arabi, gli uomini del Rinascimento hanno persino esagerato nel loro tentativo di ricuperare perdute saggezze orientali, dai Caldei agli Egizi, Montesquieu ha cercato di capire come un persiano potesse vedere i francesi, e antropologi moderni hanno condotto i loro primi studi sui rapporti dei salesiani, che andavano sì presso i Bororo per convertirli, se possibile, ma anche per capire quale fosse il loro modo di pensare e di vivere forse memori del fatto che missionari di alcuni secoli prima non erano riusciti a capire le civiltà amerindie e ne avevano incoraggiato lo sterminio.


Ho nominato gli antropologi. Non dico cosa nuova se ricordo che, dalla metà del XIX secolo in avanti, l'antropologia culturale si è sviluppata come tentativo di sanare il rimorso dell'Occidente nei confronti degli Altri, e specialmente di quegli Altri che erano definiti selvaggi, società senza storia, popoli primitivi. L'Occidente coi selvaggi non era stato tenero: li aveva "scoperti", aveva tentato di evangelizzarli, li aveva sfruttati, molti ne aveva ridotto in schiavitù, tra l'altro con l'aiuto degli arabi, perché le navi degli schiavi venivano scaricate a New Orleans da raffinati gentiluomini di origine francese, ma stivate sulle coste africane da trafficanti musulmani. L'antropologia culturale (che poteva prosperare grazie all'espansione coloniale) cercava di riparare ai peccati del colonialismo mostrando che quelle culture "altre" erano appunto delle culture, con le loro credenze, i loro riti, le loro abitudini, ragionevolissime del contesto in cui si erano sviluppate, e assolutamente organiche, vale a dire che si reggevano su una loro logica interna. Il compito dell'antropologo culturale era di dimostrare che esistevano delle logiche diverse da quelle occidentali, e che andavano prese sul serio, non disprezzate e represse.


Questo non voleva dire che gli antropologi, una volta spiegata la logica degli Altri, decidessero di vivere come loro; anzi, tranne pochi casi, finito il loro pluriennale lavoro oltremare se ne tornavano a consumare una serena vecchiaia nel Devonshire o in Piccardia. Però leggendo i loro libri qualcuno potrebbe pensare che l'antropologia culturale sostenga una posizione relativistica, e affermi che una cultura vale l'altra. Non mi pare sia così. Al massimo l'antropologo ci diceva che, sino a che gli Altri se ne stavano a casa propria, bisognava rispettare il loro modo di vivere.

 
La vera lezione che si deve trarre dall'antropologia culturale è piuttosto che, per dire se una cultura è superiore a un'altra, bisogna fissare dei parametri. Un conto è dire che cosa sia una cultura e un conto dire in base a quali parametri la giudichiamo. Una cultura può essere descritta in modo passabilmente oggettivo: queste persone si comportano così, credono negli spiriti o in un'unica divinità che pervade di sé tutta la natura, si uniscono in clan parentali secondo queste regole, ritengono che sia bello trafiggersi il naso con degli anelli (potrebbe essere una descrizione della cultura giovanile in Occidente), ritengono impura la carne di maiale, si circoncidono, allevano i cani per metterli in pentola nei dì festivi o, come ancor dicono gli americani dei francesi, mangiano le rane.


L'antropologo ovviamente sa che l'obiettività viene sempre messa in crisi da tanti fattori. L'anno scorso sono stato nei paesi Dogon e ho chiesto a un ragazzino se fosse musulmano. Lui mi ha risposto, in francese, "no, sono animista". Ora, credetemi, un animista non si definisce animista se non ha almeno preso un diploma alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, e quindi quel bambino parlava della propria cultura così come gliela avevano definita gli antropologi. Gli antropologi africani mi raccontavano che quando arriva un antropologo europeo i Dogon, ormai scafatissimi, gli raccontano quello che aveva scritto tanti anni fa un antropologo, Griaule (al quale però, così almeno asserivano gli amici africani colti, gli informatori indigeni avevano raccontato cose abbastanza slegate tra loro che poi lui aveva riunito in un sistema affascinante ma di dubbia autenticità). Tuttavia, fatta la tara di tutti i malintesi possibili di una cultura Altra si può avere una descrizione abbastanza "neutra". I parametri di giudizio sono un'altra cosa, dipendono dalle nostre radici, dalle nostre preferenze, dalle nostre abitudini, dalle nostre passioni, da un nostro sistema di valori. Facciamo un esempio. Riteniamo noi che il prolungare la vita media da quaranta a ottant'anni sia un valore? Io personalmente lo credo, però molti mistici potrebbero dirmi che, tra un crapulone che campa ottant'anni e san Luigi Gonzaga che ne campa ventitré, è il secondo che ha avuto una vita più piena. Ma ammettiamo che l'allungamento della vita sia un valore: se è così la medicina e la scienza occidentale sono certamente superiori a molti altri saperi e pratiche mediche.


Crediamo che lo sviluppo tecnologico, l'espansione dei commerci, la rapidità dei trasporti siano un valore? Moltissimi la pensano così, e hanno diritto di giudicare superiore la nostra civiltà tecnologica. Ma, proprio all'interno del mondo occidentale, ci sono coloro che reputano valore primario una vita in armonia con un ambiente incorrotto, e dunque sono pronti a rinunciare ad aerei, automobili, frigoriferi, per intrecciare canestri e muoversi a piedi di villaggio in villaggio, pur di non avere il buco dell'ozono. E dunque vedete che, per definire una cultura migliore dell'altra, non basta descriverla (come fa l'antropologo) ma occorre il richiamo a un sistema di valori a cui riteniamo di non potere rinunciare. Solo a questo punto possiamo dire che la nostra cultura, per noi, è migliore.

 
In questi giorni si è assistito a varie difese di culture diverse in base a parametri discutibili. Proprio l'altro giorno leggevo una lettera a un grande quotidiano dove si chiedeva sarcasticamente come mai i premi Nobel vanno solo agli occidentali e non agli orientali. A parte il fatto che si trattava di un ignorante che non sapeva quanti premi Nobel per la letteratura sono andati a persone di pelle nera e a grandi scrittori islamici, a parte che il premio Nobel per la fisica del 1979 è andato a un pakistano che si chiama Abdus Salam, affermare che riconoscimenti per la scienza vanno naturalmente a chi lavora nell'ambito della scienza occidentale è scoprire l'acqua calda, perché nessuno ha mai messo in dubbio che la scienza e la tecnologia occidentali siano oggi all'avanguardia. All'avanguardia di cosa? Della scienza e della tecnologia. Quanto è assoluto il parametro dello sviluppo tecnologico? Il Pakistan ha la bomba atomica e l'Italia no. Dunque noi siamo una civiltà inferiore? Meglio vivere a Islamabad che ad Arcore?


I sostenitori del dialogo ci richiamano al rispetto del mondo islamico ricordando che ha dato uomini come Avicenna (che tra l'altro è nato a Buchara, non molto lontano dall'Afghanistan) e Averroè - ed è un peccato che si citino sempre questi due, come fossero gli unici, e non si parli di Al Kindi, Avenpace, Avicebron, Ibn Tufayl, o di quel grande storico del XIV secolo che fu Ibn Khaldun, che l'Occidente considera addirittura l'iniziatore delle scienze sociali. Ci ricordano che gli arabi di Spagna coltivavano geografia, astronomia, matematica o medicina quando nel mondo cristiano si era molto più indietro. Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra ad aspettare per più di centocinquant'anni che arrivassero gli olandesi a comperargli l'intera penisola per ventiquattro dollari. E invece no, senza offesa per nessuno, oggi il centro del mondo è New York e non Vinci.


Le cose cambiano. Non serve ricordare che gli arabi di Spagna erano assai tolleranti con cristiani ed ebrei mentre da noi si assalivano i ghetti, o che il Saladino, quando ha riconquistato Gerusalemme, è stato più misericordioso coi cristiani di quanto non fossero stati i cristiani con i saraceni quando Gerusalemme l'avevano conquistata. Tutte cose esatte, ma nel mondo islamico ci sono oggi regimi fondamentalisti e teocratici che i cristiani non li tollerano e Bin Laden non è stato misericordioso con New York. La Battriana è stato un incrocio di grandi civiltà, ma oggi i talebani prendono a cannonate i Buddha. Di converso, i francesi hanno fatto il massacro della Notte di San Bartolomeo, ma questo non autorizza nessuno a dire che oggi siano dei barbari.


Non andiamo a scomodare la storia perché è un'arma a doppio taglio. I turchi impalavano (ed è male) ma i bizantini ortodossi cavavano gli occhi ai parenti pericolosi e i cattolici bruciavano Giordano Bruno; i pirati saraceni ne facevano di cotte e di crude, ma i corsari di sua maestà britannica, con tanto di patente, mettevano a fuoco le colonie spagnole nei carabi; Bin Laden e Saddam Hussein sono nemici feroci della civiltà occidentale, ma all'interno della civiltà occidentale abbiamo avuto signori che si chiamavano Hitler o Stalin (Stalin era così cattivo che è sempre stato definito come orientale, anche se aveva studiato in seminario e letto Marx).


No, il problema dei parametri non si pone in chiave storica, bensì in chiave contemporanea. Ora, una delle cose lodevoli delle culture occidentali (libere e pluralistiche, e questi sono i valori che noi riteniamo irrinunciabili) è che si sono accorte da gran tempo che la stessa persona può essere portata a manovrare parametri diversi, e mutuamente contraddittori, su questioni differenti. Per esempio si reputa un bene l'allungamento della vita e un male l'inquinamento atmosferico, ma avvertiamo benissimo che forse, per avere i grandi laboratori in cui si studia l'allungamento della vita, occorre avere un sistema di comunicazioni e rifornimento energetico che poi, dal canto proprio, produce l'inquinamento. La cultura occidentale ha elaborato la capacità di mettere liberamente a nudo le sue proprie contraddizioni.


Magari non le risolve, ma sa che ci sono, e lo dice. In fin dei conti tutto il dibattito su globale-sì e globale-no sta qui, tranne che per le tute nere spaccatutto: come è sopportabile una quota di globalizzazione positiva evitando i rischi e le ingiustizie della globalizzazione perversa, come si può allungare la vita anche ai milioni di africani che muoiono di Aids (e nel contempo allungare anche la nostra) senza accettare una economia planetaria che fa morire di fame gli ammalati di Aids e fa ingoiare cibi inquinati a noi?


Ma proprio questa critica dei parametri, che l'Occidente persegue e incoraggia, ci fa capire come la questione dei parametri sia delicata. E' giusto e civile proteggere il segreto bancario? Moltissimi ritengono di sì. Ma se questa segretezza permette ai terroristi di tenere i loro soldi nella City di Londra? Allora, la difesa della cosiddetta privacy è un valore positivo o dubbio? Noi mettiamo continuamente in discussione i nostri parametri. Il mondo occidentale lo fa a tal punto che consente ai propri cittadini di rifiutare come positivo il parametro dello sviluppo tecnologico e di diventare buddisti o di andare a vivere in comunità dove non si usano i pneumatici, neppure per i carretti a cavalli. La scuola deve insegnare ad analizzare e discutere i parametri su cui si reggono le nostre affermazioni passionali.

 
Il problema che l'antropologia culturale non ha risolto è cosa si fa quando il membro di una cultura, i cui principi abbiamo magari imparato a rispettare, viene a vivere in casa nostra. In realtà la maggior parte delle reazioni razziste in Occidente non è dovuta al fatto che degli animisti vivano nel Mali (basta che se ne stiano a casa propria, dice infatti la Lega), ma che gli animisti vengano a vivere da noi. E passi per gli animisti, o per chi vuole pregare in direzione della Mecca, ma se vogliono portare il chador, se vogliono infibulare le loro ragazze, se (come accade per certe sette occidentali) rifiutano le trasfusioni di sangue ai loro bambini ammalati, se l'ultimo mangiatore d'uomini della Nuova Guinea (ammesso che ci sia ancora) vuole emigrare da noi e farsi arrosto un giovanotto almeno ogni domenica?

Sul mangiatore d'uomini siamo tutti d'accordo, lo si mette in galera (ma specialmente perché non sono un miliardo), sulle ragazze che vanno a scuola col chador non vedo perché fare tragedie se a loro piace così, sulla infibulazione il dibattito è invece aperto (c'è persino chi è stato così tollerante da suggerire di farle gestire dalle unità sanitarie locali, così l'igiene è salva), ma cosa facciamo per esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul passaporto col velo? Abbiamo delle leggi, uguali per tutti, che stabiliscono dei criteri di identificazione dei cittadini, e non credo si possa deflettervi. Io quando ho visitato una moschea mi sono tolto le scarpe, perché rispettavo le leggi e le usanze del paese ospite. Come la mettiamo con la foto velata?
Credo che in questi casi si possa negoziare. In fondo le foto dei passaporti sono sempre infedeli e servono a quel che servono, si studino delle tessere magnetiche che reagiscono all'impronta del pollice, chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l'eventuale sovrapprezzo. E se poi queste donne frequenteranno le nostre scuole potrebbero anche venire a conoscenza di diritti che non credevano di avere, così come molti occidentali sono andati alle scuole coraniche e hanno deciso liberamente di farsi musulmani. Riflettere sui nostri parametri significa anche decidere che siamo pronti a tollerare tutto, ma che certe cose sono per noi intollerabili.

 
L'Occidente ha dedicato fondi ed energie a studiare usi e costumi degli Altri, ma nessuno ha mai veramente consentito agli Altri di studiare usi e costumi dell'Occidente, se non nelle scuole tenute oltremare dai bianchi, o consentendo agli Altri più ricchi di andare a studiare a Oxford o a Parigi - e poi si vede cosa succede, studiano in Occidente e poi tornano a casa a organizzare movimenti fondamentalisti, perché si sentono legati ai loro compatrioti che quegli studi non li possono fare (la storia è peraltro vecchia, e per l'indipendenza dell'India si sono battuti intellettuali che avevano studiato con gli inglesi).


Antichi viaggiatori arabi e cinesi avevano studiato qualcosa dei paesi dove tramonta il sole, ma sono cose di cui sappiamo abbastanza poco. Quanti antropologi africani o cinesi sono venuti a studiare l'Occidente per raccontarlo non solo ai propri concittadini, ma anche a noi, dico raccontare a noi come loro ci vedono? Esiste da alcuni anni una organizzazione internazionale chiamata Transcultura che si batte per una "antropologia alternativa". Ha condotto studiosi africani che non erano mai stati in Occidente a descrivere la provincia francese e la società bolognese, e vi assicuro che quando noi europei abbiamo letto che due delle osservazioni più stupite riguardavano il fatto che gli europei portano a passeggio i loro cani e che in riva al mare si mettono nudi - beh, dico, lo sguardo reciproco ha incominciato a funzionare da ambo le parti, e ne sono nate discussioni interessanti.


In questo momento, in vista di un convegno finale che si svolgerà a Bruxelles a novembre, tre cinesi, un filosofo, un antropologo e un artista, stanno terminando il loro viaggio di Marco Polo alla rovescia, salvo che anziché limitarsi a scrivere il loro Milione registrano e filmano. Alla fine non so cosa le loro osservazioni potranno spiegare ai cinesi, ma so che cosa potranno spiegare anche a noi. Immaginate che fondamentalisti musulmani vengano invitati a condurre studi sul fondamentalismo cristiano (questa volta non c'entrano i cattolici, sono protestanti americani, più fanatici di un ayatollah, che cercano di espungere dalle scuole ogni riferimento a Darwin). Bene, io credo che lo studio antropologico del fondamentalismo altrui possa servire a capire meglio la natura del proprio. Vengano a studiare il nostro concetto di guerra santa (potrei consigliare loro molti scritti interessanti, anche recenti) e forse vedrebbero con occhio più critico l'idea di guerra santa in casa loro. In fondo noi occidentali abbiamo riflettuto sui limiti del nostro modo di pensare proprio descrivendo la pensée sauvage.

 
Uno dei valori di cui la civiltà occidentale parla molto è l'accettazione delle differenze. Teoricamente siamo tutti d'accordo, è politically correct dire in pubblico di qualcuno che è gay, ma poi a casa si dice ridacchiando che è un frocio. Come si fa a insegnare l'accettazione della differenza? L'Academie Universelle des Cultures ha messo in linea un sito dove si stanno elaborando materiali su temi diversi (colore, religione, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro scolari come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto si è deciso di non dire bugie ai bambini, affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione. Né basta dirgli che sono tutti figli di Dio, perché anche gli animali sono figli di Dio, eppure i ragazzi non hanno mai visto una capra in cattedra a insegnargli l'ortografia. Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza.


Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana. Il passo successivo sarà mostrare che c'è qualcosa in comune tra la nostra e la loro musica, e che anche il loro Dio raccomanda alcune cose buone. Obiezione possibile: noi lo faremo a Firenze, ma poi lo faranno anche a Kabul? Bene, questa obiezione è quanto di più lontano possa esserci dai valori della civiltà occidentale. Noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi.


Il parametro della tolleranza della diversità è certamente uno dei più forti e dei meno discutibili, e noi giudichiamo matura la nostra cultura perché sa tollerare la diversità, e barbari quegli stessi appartenenti alla nostra cultura che non la tollerano. Punto e basta. Altrimenti sarebbe come se decidessimo che, se in una certa area del globo ci sono ancora cannibali, noi andiamo a mangiarli così imparano. Noi speriamo che, visto che permettiamo le moschee a casa nostra, un giorno ci siano chiese cristiane o non si bombardino i Buddha a casa loro. Questo se crediamo nella bontà dei nostri parametri.

 
Molta è la confusione sotto il cielo. Di questi tempi avvengono cose molto curiose. Pare che difesa dei valori dell'Occidente sia diventata una bandiera della destra, mentre la sinistra è come al solito filo islamica. Ora, a parte il fatto che c'è una destra e c'è un cattolicesimo integrista decisamente terzomondista, filoarabo e via dicendo, non si tiene conto di un fenomeno storico che sta sotto gli occhi di tutti. La difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna in genere è stata sempre una caratteristica delle ali laiche e progressiste. Non solo, ma a una ideologia del progresso tecnologico e scientifico si sono richiamati tutti i regimi comunisti. Il Manifesto del 1848 si apre con un elogio spassionato dell'espansione borghese; Marx non dice che bisogna invertire la rotta e passare al modo di produzione asiatico, dice solo che questi di questi valori e di questi successi si debbono impadronire i proletari.


Di converso è sempre stato il pensiero reazionario (nel senso più nobile del termine), almeno a cominciare col rifiuto della rivoluzione francese, che si è opposto all'ideologia laica del progresso affermando che si deve tornare ai valori della Tradizione. Solo alcuni gruppi neonazisti si rifanno a una idea mitica dell'Occidente e sarebbero pronti a sgozzare tutti i musulmani a Stonehenge. I più seri tra i pensatori della Tradizione (tra cui anche molti che votano Alleanza Nazionale) si sono sempre rivolti, oltre che a riti e miti dei popoli primitivi, o alla lezione buddista, proprio all'Islam, come fonte ancora attuale di spiritualità alternativa. Sono sempre stati lì a ricordarci che noi non siamo superiori, bensì inariditi dall'ideologia del progresso, e che la verità dobbiamo andarla a cercare tra i mistici Sufi o tra i dervisci danzanti. E queste cose non le dico io, le hanno sempre dette loro. Basta andare in una libreria e cercare negli scaffali giusti.


In questo senso a destra si sta aprendo ora una curiosa spaccatura. Ma forse è solo segno che nei momenti di grande smarrimento (e certamente viviamo uno di questi) nessuno sa più da che parte sta. Però è proprio nei momenti di smarrimento che bisogna sapere usare l'arma dell'analisi e della critica, delle nostre superstizioni come di quelle altrui. Spero che di queste cose si discuta nelle scuole, e non solo nelle conferenze stampa.


(5 ottobre 2001)