mercoledì 14 settembre 2011

conti


se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?
Credo che molti di noi cerchino regole precise a cui far riferimento. Poi magari le infrangiamo, ma ne abbiamo bisogno. Perfino le indicazioni di Dio, che sono ben di più, le riduciamo a delle regole. In questo caso l’invito al perdono, indicazione di fondo che dovrebbe diventare stile di vita, viene ridotta a ‘quante volte devo perdonare?’. Questo perché? Perché la regola semplifica le cose. Perché la regola permette di non mettersi in discussione. Perché la regola permette di lasciare la responsabilità delle nostre azioni ad altri, magari a una autorità riconosciuta e rassicurante. Perché la regola, una volta rispettata, permette di sentirci a posto. E poi perché una volta raggiunto il numero sufficiente possiamo smettere e non pensarci più.
Si radunarono tutti gli anziani d'Israele e andarono da Samuele a Rama. Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non ricalcano le tue orme. Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli”. I Sam 8, 4-5
Non per tutti è così, forse, ma credo che questo atteggiamento sia molto diffuso. Tutti dicono di pensare con la propria testa, ma alla fine ci si uniforma sempre a degli schemi precisi, magari alternativi di nome ma omologati di fatto.


E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Gesù scombina subito i calcoli umani. Poi spiega da dove viene fuori questa richiesta esagerata:

il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
A lui [il servo spietato della parabola] erano stati condonati diecimila talenti (myria tàlanta). Il talento, come la mina, è solo una «moneta di conto», cioè un’unità monetaria che non esiste in realtà ma alla quale si fa riferimento per calcolare somme di grande quantità … Il talento attico, di cui parlano i Vangeli, si divideva in sessanta mine, ognuna delle quali valeva cento denari. I diecimila talenti indicavano quindi una somma esorbitante, impagabile, di sessanta milioni di denari: si è calcolato che in quindici anni un lavoratore poteva guadagnare un talento in tutto...
Il compagno del servo spietato deve a quest’ultimo solo cento denari (hèkaton denària) … un denario, come conferma la parabola degli invitati a lavorare nella vigna, era il salario di una giornata di lavoro di un bracciante agricolo e, con buona probabilità, di un qualsiasi operaio specializzato in una determinata attività.
Cesare Pasini in ‘Le monete di Dio
Una decisione, quella del padrone, fuori da ogni logica. È vero che il servo non sarebbe mai riuscito a pagare un debito così elevato, ma verrebbe da pensare che almeno tirargli fuori tutto il possibile sarebbe stato legittimo.
Vedremo più avanti che significato ha questo condono totale.

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari.
Se il Denaro era la paga di un giorno, cento denari potrebbero quindi corrispondere all’incirca a 10000 euro. Una cifra non indifferente, ma certo non paragonabile all’enorme debito che il primo servo aveva nei confronti del padrone.

Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
L’uomo a cui è stato condonato un debito immenso non si rende conto di quel regalo e pretende la restituzione di un debito nei suoi confronti che in proporzione è insignificante.


il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
‘Cosa devo fare?’ è la questione di fondo che ci poniamo di fronte a ogni situazione che richieda una nostra presa di posizione. Questa parabola ci illustra due criteri per rispondere a questa domanda.

Il primo è il più semplice. Mi aspetto che Dio mi dia le istruzioni dettagliate. È quello che chiede Pietro a Gesù: quante volte devo perdonare? Questo criterio non richiede ragionamenti, valutazioni, consapevolezze particolari. È il metodo Pino la lavatrice: ‘tu mi dici quello che devo fare e io lo faccio’. (In realtà poi non è vero che lo faccio, perché una volta ricevuta l’istruzione, il comando, partono tutte le nostre obiezioni, cavilli e rimostranze. Ma questo è un altro discorso). Oltre a essere un metodo che semplifica la vita, o che almeno non richiede di metterci in gioco eccessivamente, quello delle istruzioni dettagliate ha anche un altro vantaggio: una volta che ho fatto quello che mi è stato chiesto, una volta osservata la regola, io sono a posto. Missione compiuta.

Il secondo criterio è quello che Gesù vuol far comprendere. È la strada più difficile, perché richiede consapevolezza della propria situazione personale in rapporto al mondo, alla vita, a Dio, a se stessi e agli altri. Richiede inoltre la capacità di darsi le regole operative da soli, basandole su delle indicazioni originarie da parte di Dio che richiedono di essere adattate alle singole situazioni, pensate e rese consapevoli.
In questo caso l’indicazione originaria di Dio è il perdono. L’uomo la vuole ridurre a delle regole ben definite: quante volte? Dio invece vuole che l’uomo sappia mettersi sempre in atteggiamento di perdono, partendo dalla consapevolezza di quello che Dio ha fatto nei suoi confronti e applicandolo a sua volta agli altri.

Quindi cosa significa la parabola?
Se Dio decidesse di fare i conti con noi potrebbe dirci: io ti ho prestato la vita, l’intelligenza, il tempo, il mondo in cui vivi, le tue capacità, le risorse che hai a disposizione e molte altre cose ancora. Mica penserai che queste cose te le sei guadagnate. Sono mie. Erano un prestito. Bene, adesso restituisci.
Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì ... Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Mt 25, 14-19
Cosa potremmo fare di fronte a una richiesta del genere? Come potremmo restituire tutto? Se anche lo facessimo non avremmo più nulla, anzi, smetteremmo di esistere. Ecco che cominciamo a renderci conto della nostra situazione. È ben diverso dal mettere in pratica qualche regoletta dataci da Dio e magari sentirci pure a posto con la coscienza e migliori degli altri.
Ma non è ancora tutto. Dio queste cose non solo ce le presta, ma ce le regala, chiedendo solo di usarle bene. Un debito immenso condonato e regalato.
Ma non basta ancora. Non ci sono solo questi regali. C’è anche tutto il male che abbiamo fatto e che lui ci perdona, sempre, senza limiti e senza condizioni. Altro che sette volte! Tutte le nostre bestemmie, tutti i nostri tradimenti, tutte le nostre menzogne, tutte le nostre disonestà, tutti i nostri furti, tutte le nostre cattiverie. Per quanto numerosi e grandi siano questi mali il perdono è assicurato.
Con Cristo, Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l'incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Col 2, 13-14 


E noi, dopo aver ricevuto tutto questo ci mettiamo ancora a fare i conti con gli altri che ci devono poche miserie? E noi ci permettiamo ancora di non rivolgere più la parola a qualcuno per anni, per decenni, perché ci ha fatto un’offesa o una cattiveria, per quanto grande sia stata? E noi riusciamo ancora a mettere dei limiti al nostro perdono?

Se Dio volesse fare i conti con noi saremmo perduti. Ma lui non fa i conti. Se fossimo anche solo un poco consapevoli di questo, forse smetteremmo di fare noi i conti agli altri.

10 commenti:

  1. "richiede consapevolezza della propria situazione personale in rapporto al mondo, alla vita, a Dio, a se stessi e agli altri. Richiede inoltre la capacità di darsi le regole operative da soli, basandole su delle indicazioni originarie da parte di Dio che richiedono di essere adattate alle singole situazioni, pensate e rese consapevoli."

    Grande!

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  2. Già, ma quanti sono in grado di farlo? E chi non è in grado di camminare da solo, che fa?

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  3. Vedo e prevedo che è l'argomento del tuo prossimo post!
    :-)

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  4. Figurati se so quale sarà il prossimo :-p Attendo ispirazione dall'Alto :-)

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  5. >E chi non è in grado di camminare da solo, che fa?

    Beh, sarà come è successo per te e per me, immagino: accompagnati per mano dagli amici più dotati o più grandi

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  6. no, non mi ho spiegato bene (tanto qui siamo al riparo dagli strali di Acca :-p).
    Intendevo chi non è in grado di cogliere il senso delle indicazioni di fondo e di trasformarle da solo in scelte consapevoli.

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  7. In realtà intendevo qualcosa del genere.
    Senza voler insegnare al Papa a dire messa, :-) gli apostoli non coglievano il senso di nulla ma andavano dietro a Gesù. Così noi, affascinati dalla compagnia di certi amici, possiamo andare dietro a Gesù seguendo questo fascino senza che, almeno per un certo periodo, le cose si chiariscano dal punto di vista, come dire, intellettuale, della riflessione "teorica" (in senso buono). Le scelte consapevoli si possono fare anche chiedendo la compagnia e l'aiuto degli amici; è stando con loro che piano piano cresce anche la chiarezza diciamo "intellettuale".
    O almeno questa è la mia esperienza.
    BUonanotte.

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  8. Intendevo una cosa diversa, con cui mi sto scontrando in modo particolare in questo periodo e che mi sta mettendo molto in crisi. La maggior parte delle persone con cui vengo in contatto nel mio ministero, quando si tratta di fede sostituisce la consapevolezza con una serie di generici luoghi comuni pseudoreligiosi: 'è una cosa che sento dentro di me', 'sono cose che mi hanno insegnato', 'sono dei valori'. Cosa di preciso voglia dire tutto questo non si sa. E non parlo di gente con livello culturale e sociale basso. Sono persone che in altri ambiti sanno essere attenti e consapevolissimi delle proprie scelte (specialmente in ambito economico). Eppure misteriosamente quando si entra nella fede tutti diventano dei babbei. Ancora venerdì sera a un incontro in preparazione ai battesimi mi sono scontrato con questa situazione che rimane per me un mistero. Persone colte, intelligenti, capaci, che hanno chiesto un sacramento per i loro figli e che non sono stati capaci neppure di tirare fuori la persona di Gesù quando ho chiesto in cosa consisteva la loro esperienza di fede. Niente esperienza, solo cose tramandate di padre in figlio e mai capite e neppure discusse. Si va sempre a finire sui generici 'valori', sul 'rispetto', sul 'sentire'.
    Che nella Scrittura ci possa essere la Parola di Dio è una cosa ignota a tutti. Eppure non sono atei razionalisti incalliti. Anzi, se fosse così sarebbe molto più facile comunicare. Sono credenti generici e, per tornare all'argomento iniziale, inconsapevoli. Però senza alcuna intenzione di migliorare la situazione. Per loro va bene così. E' la sensazione che a volte ho durante l'omelia domenicale e ancora di più durante i funerali o i matrimoni: avere davanti un muro di gomma.

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  9. E' molto vero. Io posso dire che questo accade molto di meno se uno vive l'esperienza di fede in un gruppo di persone con le palle; che poi sia gruppo parrocchiale o movimento conta poco. Se sei abituato a pensare che Iddio parla attraverso non i pensieri e le sensazioni, che dipendono da come mi alzo la mattina, ma i fatti oggettivi (e il più oggettivo e meno manipolabile sono le persone che hai attorno), accade di meno.
    Una volta con i ragazzi con cui andiamo la domenica dagli handicappati abbiamo organizzato una cena con gli infermieri, per raccontare loro perchè andiamo lì, eccetera. Noi andiamo da molti anni e tutti gli infermieri ci conoscono, ci salutano sorridendo e ci vogliono bene.
    Sono venuti in due. Quei due erano quelli che già avevano alle spalle un'eperienza vera, uno in oratorio e l'altro non ricordo in che ambito. Non è un caso.

    PS: non puoi togliere questi maledetti chaptcha, o come diavolo si dice?

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  10. riguardo ai captcha, devo pur sapere se chi commenta è umano o no :-D

    A dire il vero non avevo idea che ci fossero dei captcha da qualche parte. Ma ti viene richiesto per poter postare il commento?

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