mercoledì 17 agosto 2011

berlicche 5

Mio caro Malacoda,
si rimane un pochino delusi quando ci si attendeva un rapporto dettagliato sul tuo lavoro e si riceve invece una rapsodia vaga come la tua ultima lettera. Dici che sei delirante di gioia perché gli europei hanno cominciato un’altra guerra delle loro. Vedo chiaramente ciò che ti è capitato. Non sei delirante, sei soltanto ubriaco. Leggendo tra le righe del tuo squilibratissimo resoconto della notte insonne del tuo paziente, sono in grado di ricostruire con sufficiente accuratezza lo stato della tua mente. Per la prima volta nella tua carriera hai assaggiato quel vino che è la ricompensa di tutte le nostre fatiche (l’angoscia e lo smarrimento di un’anima umana) e ti è andato alla testa. Mi riesce difficile biasimarti. Non posso aspettarmi teste da vecchio su giovani spalle. Il tuo paziente, dunque, ha reagito ad alcune delle tue raffigurazioni terrificanti del futuro? Sei riuscito ad infiltrarvi qualche malinconico sguardo a felice passato, suscitando un sentimento di autocompassione? C’è stato qualche ben riuscito tremito nel profondo dello stomaco? Hai saputo suonare il tuo violino delicatamente, vero? Bene! Bene! È una cosa molto naturale. Ma ricordati bene, Malacoda, che il dovere viene prima del piacere. Se una qualsiasi concessione che ti permetti ora ti condurrà alla perdita finale della preda, per tutta l’eternità sarai lasciato bruciare dalla sete di quel sorso del quale adesso godi con tanta voluttà il primo goccio. Se, invece, per mezzo di una applicazione continua e a mente fredda, nel luogo e nel momento giusti, sarai alla fine in grado di assicurarti la sua anima, egli sarà tuo per sempre, sarà un vivente calice traboccante di disperazione e di terrore e di sorpresa, che potrai sollevare alle labbra tutte le volte che vorrai. Non permettere quindi che una qualsiasi eccitazione temporanea ti distragga dall’affare vero e proprio, quello importante di minare la fede e di impedire la formazione delle virtù. Non mancare di darmi nella tua prossima lettera un resoconto completo delle reazioni del paziente alla guerra, così che si possa studiare se sarà meglio farlo diventare un estremo patriota oppure un ardente pacifista. Le possibilità sono molte e varie, ma intanto mi preme avvertirti di non sperare troppo in una guerra. Naturalmente una guerra è divertente. L’immediato terrore e la sofferenza immediata degli esseri umani è un ristoro legittimo e piacevole per le miriadi di nostri affaticati lavoratori. Ma quale beneficio permanente ci può dare, a meno che noi non ne facciamo uso per portare anime al Nostro Padre Laggiù? Quando vedo la sofferenza temporale degli esseri imani che poi, alla fine, ci sfuggono, provo una sensazione come se mi fosse stato permesso di gustare la prima portata di un ricco banchetto e poi mi fosse negato il resto. È peggio che non aver gustato nulla.
Il Nemico, fedele ai suoi barbari metodi di guerra, ci permette di scorgere la breve sofferenza dei suoi favoriti soltanto per farci struggere e per tormentarci, per beffare la fame incessante che, durante la fase attuale del grande conflitto, ci viene imposta, bisogna ammetterlo, dal suo blocco. Quindi, pensiamo piuttosto al modo di usare che non al modo di godere di questa guerra europea. Poiché vi sono unite certe tendenze che, in se stesse, non sono per nulla favorevoli a noi. Possiamo sperare in un bel po’ di crudeltà e di impurità, ma se non staremo più che attenti dovremo vedere migliaia di persone che in questa tribolazione si volgeranno al Nemico, mentre l’attenzione di altre decine di migliaia che non giungeranno a tanto verrà tuttavia deviata dalla considerazione delle loro persone verso valori o cause che essi credono più alte del proprio io. So che il Nemico disapprova molte di queste cause, ma è qui che egli manca di lealtà. Egli fa spesso bottino di esseri umani che hanno dato la vita per ideali che egli pensa cattivi, per la ragione mostruosamente sofistica che gli esseri umani li credevano buoni e che agivano nel modo migliore che sapevano. Considera inoltre quali morti indesiderabili capitano in tempo di guerra. Gli uomini vengono uccisi in luoghi in cui sapevano di essere uccisi, e dove si recano, se appena sono del partito del Nemico, preparati. Quanto sarebbe molto meglio per noi se tutti gli esseri umani morissero in case di salute costose, in mezzo a dottori che mentono, infermiere che mentono, amici che mentono, come io li ho educati a fare, promettendo la vita ai morenti, incoraggiando la convinzione che la malattia scusa ogni indulgenza, e perfino, se i nostri lavoratori sapessero fare bene il loro mestiere, tenendo lontano a ogni accenno ad un prete, per paura che quello riveli all’infermo la vera situazione in cui si trova! Quanto è disastroso per noi il continuo richiamo alla morte che la guerra offre! Una delle nostre armi migliori, la mondanità soddisfatta, è resa inservibile. In tempo di guerra neppure uno degli umani può pensare di vivere per sempre.
So che Draghinazzo e altri hanno veduto nelle guerre una grande occasione per sferrare attacchi contro la fede, ma io ritengo esagerato questo punto di vista. Agli esseri umani partigiani del Nemico è stato detto chiaramente da lui che la sofferenza è una parte essenziale di ciò che egli chiama redenzione. E perciò una fede che viene distrutta da una guerra o da una pestilenza non valeva proprio la pena di distruggerla. Parlo di quella sofferenza diffusa per un lungo periodo quale la guerra produrrà. Naturalmente, nell’esatto momento del terrore, del lutto, o del dolore fisico puoi catturare il tuo uomo mentre la sua regione è temporaneamente sospesa. Ma anche allora, se egli si rivolge al quartier generale del Nemico, mi sono accorto che il posto militare è quasi sempre difeso.

Tuo affezionatissimo zio

Berlicche

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