Gv 9, 1-41
Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita
Quest’uomo non è
solo cieco, lo è dalla nascita. Non ha perso la vista, non l’ha mai avuta.
Quindi non può neppure farsi un’idea di cosa voglia dire ‘vedere’. Non può
neppure immaginarlo. Quindi non può desiderarlo. Al più può rendersi conto che
gli manca qualcosa. Non è una situazione molto diversa dal nostro essere
incapaci da soli di vedere Dio. Anche noi in questo siamo ciechi dalla nascita.
Senza un intervento di Dio stesso non saremo mai capaci di conoscerlo. In
questo episodio il verbo ‘vedere’ assume un significato più vasto del semplice
uso degli occhi, significa anche sapere, capire e conoscere.
e i
suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori,
perché sia nato cieco?».
I discepoli non si
chiedono il perché della situazione di quest’uomo. Sarebbe una domanda
legittima e fondamentale. Hanno già una risposta: è così in conseguenza di un
peccato, suo o dei genitori. Non è una risposta che ci sia estranea: ‘cosa ho
fatto di male per…’ è una espressione che abbiamo tutti sentito, credo, o
magari anche pronunciato. Ma è sbagliata. Crea un rapporto di causa-effetto che
non esiste. Ma soprattutto
…il risultato di
questa teoria è una grave mistificazione: i ricchi e i sani sarebbero buoni e
benedetti da Dio, mentre i poveri e i sofferenti sarebbero cattivi, maledetti
dal cielo’.
Silvano Fausti,
Una comunità legge il vangelo di Giovanni, pag. 227
Il problema in
questo caso non è tanto che i discepoli abbiano una loro idea del mondo e di
Dio. Sarebbe legittimo e comprensibile. Pur con i nostri limiti una nostra idea
delle cose dobbiamo pur farcela. Il guaio dei discepoli è che danno per
scontata la loro idea, non la mettono in discussione.
Questa domanda dei
discepoli non è molto diversa da quella che inevitabilmente viene anche a noi
in questi giorni: anche noi potremmo essere tentati di chiederci se quello che
sta succedendo non sia una punizione divina (proprio oggi ho sentito qualcuno
fare questa affermazione). Anche all’interno della chiesa c’è chi sta
proponendo questa lettura della realtà. Vedremo come Gesù risponde.
L’inizio di questo
episodio è molto coinvolgente: c’è un cieco dalla nascita (che quindi non ci
vede), c’è uno che vede molto bene (Gesù) e ci sono i discepoli che credono di
vedere ma si sbagliano. Non sono gli unici, come vedremo
Rispose
Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano
manifestate le opere di Dio.
Il modo di pensare
dei discepoli (non molto diverso dal nostro, come abbiamo visto) viene corretto
da Gesù. Siete ciechi anche voi: le cose non stanno come voi credete. Né lui
ha peccato né i suoi genitori. Il peccato non è la causa. Però questo
genera un altro dilemma: se non è lui che ha peccato allora è Dio che ha voluto
così. Finiamo dalla padella nella brace. Da un Dio che punisce a un Dio che
vuole il male. Se i limiti fisici non sono colpa dell’uomo allora sono colpa di
Dio.
Il problema è che
anche noi non ci vediamo tanto bene: consideriamo come male ogni limite o
difetto. Certamente i limiti in quanto tali sono degli ostacoli, ma la
differenza con il peccato è abissale. Il peccato impedisce la salvezza, i
limiti no. Anzi, in modo quasi paradossale, come fa notare Gesù, i limiti e i
difetti possono essere addirittura dei mezzi che permettono l’azione di Dio.
San Paolo aveva capito
bene, per averlo vissuto sulla propria pelle, quanto sia importante che Dio
possa agire, anche grazie ai nostri limiti:
…mi è
stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di
schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre
volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti
basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella
debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori
in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli
oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per
Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte. II Cor 12, 7-10
Dalla Scrittura
emerge sempre il nostro ritratto. Non ci parla solo di altri, parla di noi. Il
primo protagonista di questo episodio, oltre a Gesù, è il cieco. E questo cieco
siamo noi. Allora sentirci dire ‘tu sei così, con i tuoi limiti e difetti, e
proprio perché sei così in te si manifesteranno le opere di Dio’ cambia la
visione delle cose. Gesù sta aiutando anche noi a vederci meglio.
Bisogna
che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene
la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del
mondo».
Che i difetti e i
limiti possano essere un ambiente in cui Dio può agire è una bella scoperta,
però bisogna che poi Dio agisca, altrimenti i limiti e i difetti rimangono
tali. In greco, lingua dei vangeli, ci sono due termini per indicare il tempo:
Krònos, che è il tempo che scorre e passa, e Kairòs, che è il momento buono,
l’attimo da non lasciarsi scappare. È il momento in cui il ragazzo timido coglie
il coraggio per dichiararsi alla ragazza di cui è innamorato. È l’attimo in cui
l’atleta afferra l’opportunità di battere il record. È tempo giusto in cui
l’imprenditore lancia sul mercato un nuovo prodotto perché diventi un successo.
E’ l’adesso o mai più. Questo è anche l’intervento di Cristo nel mondo: è il
momento giusto in cui può intervenire.
Ancora san Paolo:
…vi
esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Al
momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso.
Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! II Cor 6,
1-2
Questi giorni in
cui veniamo messi di fronte non solo alle limitazioni che conosciamo, ma anche
alla dura realtà della fragilità della nostra vita e della vita dei nostri
cari, e temiamo di perderli, sono anche i giorni favorevoli per scoprire o
riscoprire le cose essenziali, tra cui anche Dio. Stiamo scoprendo quanto sia
importante vivere bene il tempo che abbiamo a disposizione.
Detto
questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli
occhi del cieco
Questo gesto di
Gesù richiama il momento della creazione dell’uomo nella Genesi. Ciò che esce
dalla bocca di Dio viene unito alla polvere del suolo e genera vita. Il testo
della Genesi gioca sull’assonanza dei nomi: adamà è la terra da cui viene
tratto Adàm, l’uomo.
Il
Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un
alito di vita. Gen 2,7
L’azione di Dio,
il suo soffio vitale, il suo tocco si mescolano con la nostra fragilità, con il
nostro essere polvere e terra, e generano qualcosa di vivo.
e
gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”.
Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Perché Gesù non guarisce
immediatamente il cieco e gli chiede invece questo movimento (è ancora cieco,
quindi dovrà faticare per arrivare alla piscina, che è fuori della città)? Non
lo sappiamo, ma possiamo fare un’ipotesi: in altri episodi di guarigione, Gesù
chiede agli interessati se vogliono guarire.
Vi è
a Gerusalemme una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà … Si trovava là un uomo
che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da
molto tempo stava così, gli disse: “Vuoi guarire?”. Gv 5, 1-6
Ma questa domanda
non può essere fatta al cieco nato, che in quanto tale non può chiedere di avere
qualcosa che non conosce. Chi è malato desidera guarire, ma chi non ha mai
visto la luce non può desiderarla. Non sa cosa sia. Allora Gesù interviene di
iniziativa sua. Però vuole che il cieco scelga liberamente se collaborare. Non
può liberamente decidere di vedere, ma può liberamente decidere se obbedire all’ordine
di andare alla piscina.
Allora
i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante,
dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni
dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli
diceva: «Sono io!».
I vicini lo
avevano visto e ora non lo riconoscono. Anche loro non ci vedono bene. Lui
invece non solo vede bene, ma si vede bene. Nel vangelo di Giovanni
l’espressione ‘sono io/io sono’ è sempre messa in bocca a Gesù, e richiama il
nome e l’identità di Dio.
Mosè disse a Dio: “Ecco, io arrivo dagli Israeliti e
dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si
chiama? E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che
sono!”. Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi”. Es 3,
13-14
Qui l’espressione
di identità viene messa in bocca all’uomo che era cieco. Ora vede bene non solo
il mondo, ma anche sé stesso: io so chi sono! Sono gli altri ora che non ci
vedono bene.
D’ora in poi emergerà
in modo evidente l’intercambiabilità dei termini
vedere/sapere/conoscere/capire.
Allora
gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose:
«L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e
mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho
acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
L’opera di ritorno
alla luce non è ancora completa nell’uomo che era cieco. Vede bene gli altri,
vede bene se stesso, ma non riesce ancora a vedere, a conoscere bene, chi lo ha
portato alla luce. Non sa dov’è però sa chi è. Comincia a conoscere qualcosa di
Gesù: il suo nome.
Condussero
dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù
aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli
chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha
messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei
farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato».
Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo
genere?». E c’era dissenso tra loro.
I farisei sono
entrati nel nostro immaginario religioso come gli ipocriti per eccellenza. E
dal loro atteggiamento verso Gesù in effetti questa impressione è più che
confermata. Ma non dimentichiamo che erano i custodi dell’osservanza della
Legge che Dio aveva dato al suo popolo attraverso Mosè. Il problema è che nel
custodire la Legge e le sue precisissime norme, alcuni di loro avevano perduto
il significato della Legge stessa, che aveva lo scopo di guidare il popolo verso
Dio, mentre loro ne avevano fatto un assoluto: la cosa più importante per loro
era obbedire alla Legge e alle sue norme, non lasciarsene guidare per
incontrare Dio. È proprio il caso di dire che obbedivano ciecamente alla Legge.
Per questo, riguardo al rispetto delle regole più importanti, tra cui il
Sabato, erano estremamente intransigenti, tanto da non essere più capaci, come
in questo caso, di vedere una evidente azione di Dio. Non è la prima volta che
succede:
il
capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di
sabato, rivolgendosi alla folla disse: “Ci sono sei giorni in cui si deve
lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato”. Il
Signore replicò: “Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il
bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di
Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da
questo legame in giorno di sabato?”. Lc 13, 14-16
Allora
dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha
aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!».
Piano piano l’uomo
prosegue il suo cammino di illuminazione interiore. Riconosce Gesù come
profeta.
Ma i
Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la
vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista.
E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?
Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è
nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi
gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età,
parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei
Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse
riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi
genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo
l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che
quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so.
Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha
fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non
avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche
voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi
siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non
sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che
voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non
ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo
ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto
gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far
nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo
cacciarono fuori.
Un lungo gioco sui
termini sapere/non sapere. Tutto il dialogo si svolge sulla capacità/incapacità
di ciascuno di conoscere quello che sta accadendo e di capirne/vederne il
significato. Chi ammette di non sapere almeno cerca di capire. Chi si illude di
sapere finisce per chiudere gli occhi della mente e diventare cieco.
Gesù
seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel
Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?».
Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse:
«Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui.
Cade l’ultimo
ostacolo che impedisce all’uomo che ha ottenuto la vista degli occhi ma non sa
ancora vedere bene con la mente e il cuore. Ora vede Gesù, ma non solo, lo vede
nel profondo, lo conosce e lo riconosce come Signore. Ancora una volta ci viene
detto che la fede non è, come spesso la intendiamo, un credere senza capire e
senza conoscere, ma esattamente il contrario. Quest’uomo crede in Cristo solo
quando lo ha conosciuto e riconosciuto, e solo quando Gesù stesso gli si è
presentato per quello che è.
Gesù
allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché
coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni
dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo
ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun
peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».
Tutto l’episodio è
un parallelo tra chi non vede/non capisce/non conosce ma piano piano si mette
in discussione e arriva a vedere/capire/conoscere Cristo, e chi è convinto di
vedere/capire/conoscere e proprio per questo diventa sempre più cieco.
Il peccato che i
discepoli avevano visto dove non c’era ecco che ora spunta fuori proprio tra coloro
che sono convinti di essere giusti (siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro
peccato rimane).
In questo episodio
ci sono tante persone da guarire dalla cecità: i discepoli, i farisei, i
genitori del cieco, e anche noi. È interessante vedere come i protagonisti
dell’episodio si rendono (o non si rendono) conto della propria cecità, e quali
sono le conseguenze per loro. I ciechi recuperano la vista, quelli che credono
di vederci bene rimangono ciechi.
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